lunedì 28 novembre 2011

Incontri di psico-nutrizione



Primo incontro: La buona psico-educazione alimentare

Secondo incontro: La fame emotiva: come riconoscerla e gestirla

Terzo incontro: Il corpo e il cibo: acquisiamo la giusta prospettiva.

Quarto incontro: L’obesità infantile e adulta

Quinto incontro: Psicologia e nutrizione della cattiva alimentazione

Sesto incontro: Motivazione nelle situazioni di dieta e gestione del peso


Momenti di incontro e confronto per cercare di comprendere qual è il giusto approccio al cibo dal punto di vista psicologico e nutrizionale.

L’incontro si terrà un venerdì al mese, il primo si terrà giorno 16 dicembre 2011 e avrà la durata di circa due ore e si svolgerà nella sede di Via Gramsci 6, Paola,

La partecipazione al gruppo prevede una prenotazione per permettere un’ottima gestione dell’incontro.


Per informazioni e prenotare il tuo posto:

Dott.ssa Orrico Elvira                                                                       Dott.ssa Vommaro Isabella

     Psicologa                                                                                                Nutrizionista

Tel: 349-0581247                                                                                 Tel.340-7333708

Mail: elviradoc@libero.it                                                             Mail: nfo@studio-nutrizione.com

Vi aspetto, telefonate per prenotare il vostro posto!

lunedì 24 ottobre 2011

Come il ricordo può aiutarci nella gestione di una sana alimentazione.

Ci si chiede spesso se un approccio cognitivo-comportamentale riportato nella nostra vita di tutti i giorni possa realmente aiutarci. Ebbene, la risposta potrebbe risiedere nella ricerca condotta nel 2005, pubblicata su Physiology & Behavior . Questa ricerca è stata condotta dall’Università di Birmingham secondo la quale ricordare il cibo mangiato a pranzo può avere un effetto inibitorio sul desiderio di fare uno spuntino non programmato più tardi nel pomeriggio. Può sembrare strano che solo il pensiero di ciò che il nostro palato ha assaporato poco prima possa inibire la nostra voglia di “trasgredire”. Proviamo a vedere come l’esperimento si è svolto.
Lo studio si rifà a tre serie di esperimenti, nel primo abbiamo due sottogruppi, il primo gruppo aveva come condizione sperimentale il lunch today mentre il secondo il lunch yesterday. Questo il loro compito, convocati nel setting sperimentale ogni giorno dalle 14.30 alle 16.30 dovevano segnare su un foglio A4 scrivendo anche i minimi particolari cosa avevano mangiato a pranzo, del giorno stesso il primo gruppo mentre il secondo gruppo il pranzo del giorno prima. Subito dopo entrambi i gruppi compilavano un questionario in cui veniva valutata il loro livello di fame, sazietà, il loro umore e il loro desiderio/pulsione a mangiare. Infine venivano posti davanti a tre bidoni (A-B-C) contenenti pop corn con diverso grado di salinità. Mentre il compito esplicitamente detto ai partecipanti era quello di capire su una scala precedentemente determinata il grado di salinità dei tre gruppi di pop corn, ciò che osservavano i ricercatori era la quantità di pop corn ingerita dai partecipanti prima di fermarsi. Hanno evidenziato che i partecipanti appartenenti al lunch today mangiavano meno pop corn rispetto al gruppo lunch yesterday.
Inizia ora il secondo esperimenti, i ricercatori cercarono di comprendere se questo effetto inibitorio messo in atto dal gruppo lunch today non dipendesse soltanto dalle attitudini alimentari individuali. Così hanno diviso le persone nei due gruppi a seconda del loro punteggio in restraint scale  e in una disinhibition scale. Hanno così evidenziato che le attitudini alimentari individuali non influiscono sull’effetto inibitorio che può avere il ricordo del pasto, ma soltanto i partecipanti che hanno mostrato una bassa soglia di inibizione diminuiscono il loro introito dopo aver pensato al pasto consumato poche ore prima. Quindi chi ha un’alta tendenza alla disinibizione non trae alcun vantaggio dal pensare al pranzo.
Arriviamo così all’ultimo esperimento durato due giorni. Al campione veniva dato un pasto contenente 400 calorie e nel pomeriggio veniva presentato loro i tre bidoncini presentati al primo esperimento ma questa volta al loro interno vi erano dei biscotti. Nel primo giorno i biscotti venivano presentati ad un’ora del pranzo nel secondo giorno questo avveniva dopo uno stop di tre ore. Divisi i partecipanti nuovamente in due gruppi venivano date ad un gruppo l’indicazione di scrivere cosa avevano mangiato durante il pranzo mentre il secondo gruppo doveva descrivere il tragitto fatto per raggiungere il campus. Anche qui è emerso che mangiavano meno biscotti coloro che facevano parte del gruppo che ricordava il pranzo. Aggiungendo ai dati precedentemente raccolti il fatto che questo effetto sia legato anche al tempo che intercorre tra pranzo e spuntino, infatti l’inibizione è più alta nel caso in cui passano tre ore rispetto a quanto passa un’ora.
Le critiche e le repliche a questo studio, così come accade per tutti gli studi sperimentali, possono essere sicuramente tante, ma perché non prenderlo in considerazione.
Il ricordo, fondamentale per tutti noi, gioca un ruolo importante in ogni aspetto della nostra vita, molte volte ci aiuta a scegliere cosa fare e cosa non fare in una determinata situazione, perché non dovrebbe allora avere la sua importanza e aiutare chi in questo momento sta intraprendendo un percorso di sana e corretta alimentazione?
Ed ecco che, anche attraverso questo studio, si evidenzia chiaramente come il lavoro congiunto tra nutrizionista e psicologo, utilizzando un approccio cognitivo-comportamentale, possa giovare ad un percorso di sana e corretta alimentazione, che si mantiene costante nel tempo.

Bibliografia:
Physiology & Behavior 85 (2005) 67 – 72


martedì 18 ottobre 2011

Gruppo di sostegno allo stress

Ti senti stressato? Gli impegni di vita stanno per prendere il sopravvento? non riesci a comprendere come uscirne?
Lo studio di psicologia e mediazione familiare propone a novembre, una volta al mese, il gruppo di sostegno e gestione dello stress, per riconoscere lo stress, sapere come agisce su di noi e come possiamo gestirlo, per trovare dentro di noi le risorse per una miglior qualità di vita.
Prima dell'inizio del gruppo sarà possibile fare un colloquio gratuito con la psicologa, la dottoressa Orrico Elvira, per capire e ottimizzare il lavoro che s'inzierà nel gruppo.
Per avere informazioni o prenotare il tuo posto nel gruppo puoi mandare una mail a: elviradoc@libero.it o telefonare al 3490581247

lunedì 10 ottobre 2011

Consulenze on line

Il centro di psicologia e mediazione familiare si pone l’obiettivo di favorire la conoscenza e la diffusione della cultura psicologica attraverso varie iniziative.
Tra queste offre agli utenti che lo richiederanno i seguenti servizi di consulenza on line sia tramite e-mail che tramite Chat.
Prima di decidere di chiedere una consulenza on line gli utenti sono pregati di leggere attentamente i prerequisiti e le condizioni per l’utilizzo degli stessi. Il centro di psicologia e di mediazione familiare declina quindi qualsiasi responsabilità dovuta alla mancata lettura, da parte degli utenti, delle condizioni medesime.

domenica 2 ottobre 2011

Secondo appuntamento con lo psico-aperitivo

Il giorno 7 ottobre 2011 alle ore 19.30 presso Artessenza a Cosenza (due km dopo il Carrefour direzione Rende) si terrà il secondo appuntamento con lo psico-aperitivo,
Parleremo insieme di autostima:" Io sono, io voglio, io posso! Stima e fiducia in se stessi per superare le insicurezze".

venerdì 16 settembre 2011

CORSI ON LINE

Lo studio di psicologia e mediazione familiare propone i seguenti corsi on line:

  • I disturbi alimentari: Anoressia nervosa e Bulimia nervosa
  • I disturbi alimentari: BINGE, NES e Obesità
  • Lo stress e la sua gestione
  • Comunicazione efficace e assertività
  • Ciclo di vita della famiglia
  • Il conflitto e le tecniche di gestione
I corsi sono divisi in moduli settimanali, su richiesta ogni settimana è prevista una sessione chat su Skype per eventuali chiarimenti, al termine del percorso dopo la somministrazione di un questionario si riceverà l'attestato di partecipazione.
Il costo di ogni corso è di 60 euro.
Per chi volesse seguire l'intero corso sui disturbi alimentari il costo complessivo sarà di 100 euro.
Per informazioni e per prenotare il corso contatta a: elviradoc@libero.it

martedì 13 settembre 2011

PSICO-APERITIVO

Vi aspetto tutti giorno 23 settembre alle ore 19.30 presso Artessenza (via Beato F Marino
Cosenza, vicino Carrefour)

per la serata inaugurale dello psicoaperitivo. Un ciclo di incontri a tema per approfondire,conoscere e scoprire gli aspetti psicologici che influenzano in modo positivo e negativo la qualità della nostra vita.
Si inizia con il classico aperitivo, dove tra un drink e un piatto al buffet, le persone che partecipano all’incontro possono conoscersi e interagire conversando informalmente in un clima disteso e rilassante. Dal rapporto con se stessi (emozioni, stress, autostima, rapporto con il proprio corpo) alle relazioni interpersonali (comunicazione, conflitto in famiglia e nella coppia, dipendenza affettiva.
Gli incontri sono organizzati in modo da creare un momento di stimolo e d’interazione, di confronto e di scambio, auspicando la partecipazione attiva di tutti.
Il primo incontro sarà: "Aiuto, sono stressato!! Conoscere lo stress e qualche piccolo segreto per imparare a gestirlo nella vita quotidiana".
Ingresso gratuito

giovedì 11 agosto 2011

Gruppo di sostegno per il raggiungimento e il mantenimento del peso

Da settembre presso il mio Studio di Psicologia e Mediazione familiare avranno inizio i gruppi di sostegno e motivazione per tutti coloro che hanno deciso di intraprendere un percorso di dieta o che lo hanno già iniziato e hanno bisogno della giusta motivazione per andare avanti e raggiungere gli obittivi prefissati con la dieta.
Durante alcuni dei vari incontri di gruppo saranno presenti dei professionisti della salute che risponderanno alle curiosità.
Gli incontri si terranno due volte al mese al costo di 10 euro.
Per prenotarvi o ricevere informazioni potete scrivermi: elviradoc@libero.it
o telefonarmi ore ufficio al numero 349-0581247
vi aspetto!
Dott.ssa Elvira Orrico

mercoledì 3 agosto 2011

Perché è difficile mantenere il mio peso?

Negli ultimi anni, grazie al cambiamento culturale avvenuto nella nostra società, le persone sono sempre più portate a dare importanza all’aspetto esteriore cercando di curarlo in ogni sua caratteristica, anche la più piccola, è quello oggi il nostro biglietto da visita.
Ed ecco che ci troviamo in un epoca in cui anoressia, bulimia, obesità la fanno da padrone fin dalla più tenera età. È interessante notare come raggiungere la “forma” voluta e desiderata sia sempre più una questione psicologica che fisica.
Ogni persona ha provato sulla propria pelle come un piccolo passo in avanti nel raggiungimento di un obiettivo abbia ripercussioni positive sull’autostima portando la persona ad andare avanti e questo avviene anche quando parliamo di dieta, dimagrimento, peso.
Ma perché questo “fattore autostima” è così importante?
Iniziamo a vedere cosa è l’autostima, chiariamoci un po’ le idee.
L’autostima è la valutazione che ciascuno di noi dà a se stesso e cosa più importante è la valutazione che si applica a se stesso, ecco come influisce nella nostra vita perché a secondo del valore che diamo a noi stessi la nostra autostima raggiunge valori positivi o valori negativi. È nella sua capacità di creare autoefficacia che l’autostima può aiutare nel raggiungere l’obiettivo desiderato nel caso della dieta.
Una ricerca condotta parallelamente dai medici dell’Università Tecnica di Lisbona (Spagna) e dell’Università di Bangor (Uk) hanno analizzato il carattere e le abitudini alimentari di un considerevole numero di donne, i risultati sono stati chiari: più c’è autostima, più la dieta ha successo. Il dottore Pedro J. Teixeira, a capo dello studio, ha dichiarato: “Problemi riguardo l’immagine del corpo sono molto comuni tra le persone in sovrappeso e gli obesi. I nostri risultati hanno mostrato una forte correlazione tra il miglioramento dell’immagine corporea, soprattutto nel ridurre l’ansia riguardo alle opinioni degli altri, e cambiamenti positivi nel comportamento alimentare”.
Nel percorso che si intraprende quando si dimagrisce è utile conoscere aspetti di sé peculiari nel reggere il nuovo regime alimentare, l’inserimento di attività fisica, il cambiamento dello stile di vita. Ecco perché a volte ricorrere ad un supporto psicologico che possa guidare verso questa consapevolezza è fondamentale. Ricordiamoci che tutti questi cambiamenti non sono facilmente affrontabili, lo stress che si porta dietro potrebbe essere insostenibile e così si potrebbe facilmente giungere alla decisione di lasciar stare “perché non si è nemmeno capaci di affrontare un piccolo cambiamento per la propria salute”giungendo a diminuire il proprio livello di autostima e creandosi un ambiente in cui la frustrazione per il mancato raggiungimento dell’obiettivo la fa da padrone. Ed ecco un primo piccolo trucco da usare per mantenere un buon livello di autostima in caso di obiettivi non raggiunti:
Poniamoci dei piccoli e raggiungibili obiettivi. Ogni piccolo scalino raggiunto ci darà la giusta porzione di soddisfazione che ci spingerà ad andare avanti, salire il prossimo scalino e mantenere la nostra autostima ad un livello positivo.
Ricordiamoci inoltre, che raggiungere il nostro “peso ideale” è sicuramente importante, ma è altrettanto fondamentale star bene con noi stessi per vivere bene con gli altri, quindi non ritiriamoci dalla vita sociale solo perché abbiamo quei chili da perdere e andare fuori a mangiare potrebbe rallentare il percorso di raggiungimento.
Andare a prendere un aperitivo con gli amici, mangiare al ristorante e per una volta assaporare ciò che più ci piace, può aiutare la nostra autostima a mantenersi in modo positivo. Non si può vivere perennemente a dieta, impariamo a conoscerci e a “misurarci”.

Pubblicato su: www.igeacps.it

martedì 19 luglio 2011

Siamo tutti un po’ vittime dello stress!

Quante volte durante la nostra quotidianità, in un momento di relax, dopo un sospiro liberatorio abbiamo pensato: “uffa! Che stress!”?
Mentre per alcuni le situazioni di stress accompagnano solo brevi tratti della propria vita per altri lo stress accompagna ogni loro momento, ogni loro movimento, ogni loro pensiero. Questa situazione continuata e pervasiva porta a modifiche negative e significative nella vita di tutti i giorni, nei rapporti, nel benessere psicofisico della persona stessa.
Per comprendere meglio come possiamo agire per tenere lo stress lontano dai nostri pensieri vediamo da vicino come funziona il suo meccanismo.
Il termine stress è stato introdotto per la prima volta da Hans Seyle nel 1936 per indicare la "spinta a reagire, mediante l'adattamento, esercitata sull'organismo". Nel primo articolo sull'argomento (dal titolo: "Una sindrome prodotta da diversi agenti nocivi"), Hans Selye utilizzava il termine stress per indicare una reazione aspecifica dell'organismo ad ogni sollecitazione effettuata su di esso.
Questo il suo funzionamento: si attiva l’evento stressante, ora ognuno di noi formulerà i cosiddetti pensieri appresi che sono frutto della nostra esperienza personale; agendo durante l’evento stressante i pensieri creeranno delle emozioni che ci porteranno all’esplicitazione di un determinato comportamento che determinerà la conseguente risposta.
Di conseguenza a seconda del pensiero che noi ci portiamo dietro avremo un diverso grado d’incidenza dell’evento stressante nella nostra vita.
Ma per fortuna ci sono dei piccoli accorgimenti che possiamo usare nella vita di tutti i giorni che ci possono salvare dallo stress:
1. Proviamo a vivere i problemi non come delle minacce che ledono la nostra sicurezza ma come delle sfide in quanto abbiamo sempre un minimo di influenza sugli eventi, allora proviamo ad analizzare la situazione e valutare così le nostre più varie risposte scegliendo quella che ci può essere maggiormente di aiuto.
2. Iniziamo a pensare eliminando il “no, è meglio di no” e iniziando a pensare seguendo la positività della situazione, “si, così si!”.
3. Appena possiamo allontaniamoci dalla situazione stressante scegliendo di fare qualcosa che davvero ci piace e ci diverte, allontanando da noi il senso di colpa, questo perché il tempo, anche minimo, speso bene è ciò che ci consentirà poi d rigenerarci psicologicamente ed affrontare meglio lo stress.
4. Cercare di fare una vita più regolare.
5. Nelle situazioni in cui lo stress è troppo alto evitiamo consumi eccessivi di sostanze stimolanti, come possono essere il tè e il caffè. Attenzione al fumo. Moderazione con l’alcol. Evitare quindi in generale tutte quelle sostanze psicoattive che possono invece che rilassarci alterare ulteriormente il nostro ambiente biochimico interno che è già messo a dura prova dallo stress.
6. Ci sono momenti e situazioni particolari in cui tutto questo non basta. Possiamo e dobbiamo allora concederci una pausa dalla nostra modalità di vita. Ricordiamoci sempre che siamo persone, non automi. Abbiamo il diritto di non essere sempre efficienti, e quello di non stare bene in quel momento , in quella situazione.
Questi sono dei piccoli accorgimenti a cui si può ricorrere in qualsiasi momento della propria vita, nelle situazioni più pervasive è sempre meglio affidarsi ad un professionista esperto che può aiutarci a trovare le giuste competenze atte a superare queste situazioni di stress.

venerdì 24 giugno 2011

L’importanza del vivere in coppia.

Bisogna scegliere per moglie solo una
donna che, se fosse un uomo,
si sceglierebbe per amico.
Joseph Joubert



È da poco tempo che nella letteratura s’inizia a vedere la coppia attraverso delle modalità significative diverse rispetto al passato; a nostro modo di vedere, infatti, la coppia fino a pochi decenni fa veniva semplicemente considerata l’unione di due individui, mentre oggi possiamo configurarla come formata dall’incontro e dall’unione di tre componenti: due individui e una relazione.
Da una situazione in cui nella coppia avevamo dinanzi un IO ed un TU, ad una in cui le dinamiche che ci troviamo ad affrontare sono tutte basate su IO+TU=NOI, in cui il NOI rappresenta la relazione. Quando IO e TU s’incontrano sono molteplici i fattori che entrano in gioco; si è innanzi tutto attratti dall’estetica, dalla condizione socio-economica, dal bisogno di procreare e di sicurezza, ma anche dalle modalità d’attaccamento sviluppate dai due individui nei riguardi dei loro rispettivi genitori, i modelli operativi interni . Infatti, quando i processi d’individuazione si sono sviluppati pienamente e in modo ottimale si è in grado di riuscire a superare momenti difficili e cruciali del proprio ciclo di vita sia quando avvengono in una relazione coniugale significativa e soddisfacente sia in una situazione coniugale che si trova ad affrontare momenti difficili.
Per comprendere come effettivamente si viene a creare una coppia possiamo riferirci al modello che è stato elaborato da Cindy Hazan e Debra Zeffman (1995); ci parlano di un percorso di cambiamento in cui operano i sentimenti caratterizzanti i vari passaggi di vita, creando una suddivisione in quattro tappe che vanno dalla formazione al mantenimento di una relazione sentimentale che sia duratura e stabile nel tempo.
Le quattro fasi sono:
1. Attrazione: questa prima fase è caratterizzata principalmente dal corteggiamento reciproco dei futuri partner. Gli aspiranti partner individuano le persone che più di ogni altra sembra rispondere in modo positivo al loro interessamento, questa dinamica mette in atto in modo del tutto inconsapevole specifiche tipologie comportamentali. Qui possiamo rintracciare dei segni non verbali espliciti, come quelli che fa il neonato nel momento in cui si trova di fronte la madre per coinvolgerla nella relazione con lui. Subito dopo la scelta del partner giusto si ha l’accettazione, ovvero la risposta positiva o negativa da parte dell’altro scelto.
2. Innamoramento: in questa seconda fase il rapporto impostato dalla coppia ha una sua evoluzione caratterizzata dalla passione. Ogni loro manifestazione comportamentale assume le sembianze di un atteggiamento di tipo genitoriale, molto protettivo. La tenerezza che domina ora caratterizza il contatto fisico, cambia anche il tono di voce che diventa molto più dolce. Possiamo chiamare questo meccanismo (Savarese G. 2008) love-talk che ricorda molto da vicino il baby-talk, che sarebbe il modo di parlare della madre nei confronti del proprio bambino con fare dolce e premuroso. I partner iniziano così a confidarsi i momenti più dolorosi che hanno caratterizzato il loro ciclo di vita, fungendo reciprocamente d rifugio emotivo. La maggior parte delle sequenze comportamentali che qui ritroviamo sono molto comuni a quelli presenti nella seconda fase del legame di attaccamento madre-bambino, vediamo, infatti, il bambino che ora cerca conforto e di conseguenza orienta i propri comportamenti verso la persona ritenuta più sensibile e maggiormente ricettiva a ciò che lui richiede.
3. Amore: in questa terza fase la frequenza dell’attività sessuale inizia a diminuire, mentre aumenta d’importanza il supporto emozionale, la capacità dell’altro di essere un rifugio sicuro e il suo dare accadimento. Dalla passione si passa all’intimità. Le emozioni e le sensazioni che predominano sono: calore, affetto e fiducia. La naturale conseguenza di questa sensazione di calma e di appagamento reciproco è la comparsa di un altro fenomeno: ansia da separazione, che ritroviamo anche nella relazione del bambino con la propria madre. Questo avviene quando uno dei due partner si allontana dall’altro per un determinato periodo di tempo. In questo caso, i due partner avvertono del vero e proprio disagio mentale, che sfocia in un vero e proprio stato d’ansia, dovuto al fatto che il partner momentaneamente lasciato si potrebbe trovare a dover affrontare una situazione di pericolo senza il supporto del proprio partner. Questo fenomeno è l’indicatore per eccellenza dell’avvenuta formazione del vero e proprio legame di attaccamento.
4. Attaccamento: questa ultima fase è caratterizzata dall’impegno che non ha solo una dimensione cognitiva e razionale, ma anche fortemente emotiva; ed è nell’impegno che troviamo la volontà di investire a lungo termine nella relazione con il partner. È il momento in cui ciascun partner funziona da base sicura per l’altro. Grazie alla fiducia ora acquisita, entrambi i partner hanno possibilità di esplorare, di lavorare, di viaggiare indipendentemente dall’altro, sapendo, comunque, di avere al proprio fianco qualcuno su cui fare sempre affidamento. Si trovano, quindi ad essere consapevoli che dall’altro riceveranno sempre protezione e cura.

È grazie all’equilibrio che trova la coppia nell’attraversare queste quattro fasi che si crea un lungo e duraturo legame di coppia.





Bibliografia:
Andolfi, M.
1999 La crisi della coppia, Milano, Raffaello Cortina Editore.
Cigoli, V.
1997 Intrecci familiari, Milano, Raffaello Cortina Editore.

lunedì 6 giugno 2011

Quando il conflitto nella coppia porta alla separazione.


Quando in una coppia il legame inizia a giungere alla sua conclusione inevitabilmente si giunge ad una situazione di dolore e grande sofferenza che spesso sfocia in situazioni conflittuali.
La situazione è di dolore per entrambi, ma questa sofferenza stavolta non riesce ad essere condivisa in alcun modo dalla coppia. Ognuno risulta ripiegato su di sé e non riesce a confrontarsi con l’altro, ma di conseguenza anche con la realtà, passata e presente. Per quanto il conflitto sia un elemento indispensabile di una relazione, ci troviamo ora dinanzi ad una condizione di separazione. L’alta conflittualità che viene a delinearsi può acquisire e presentarsi con varie forme e modalità d’azione a seconda del vissuto emotivo che in quel momento si vive. Di conseguenza riteniamo che sia sbagliato prendere in considerazione il conflitto come qualcosa che è lì e sussiste sempre con modalità diverse mutando solo d’intensità, ma sarebbe più giusto ritenerlo in continuo cambiamento identificandolo come una sorta di processo con un proprio ciclo di vita. Infatti, il conflitto ha un suo inizio, che possiamo vedere come l’accensione di una miccia, un continuum, un acme e una fine che a nostro parere può intraprendere una scelta tra due opzioni: una visione positiva, in cui il conflitto viene vissuto come trasformazione, cambiamento e rinascita; una visione negativa, quando l’individuo non riuscendo a svolgere il suo percorso di risoluzione del lutto e dell’abbandono, acutizza l’odio e il rancore unendoli ai sensi di colpa sul perché la storia e il matrimonio abbia avuto fine.
Improvvisamente si tende a considerare l’altro una persona completamente diversa da quella con cui fino a poco tempo prima si divideva la casa, la vita, le attese, le gioie e i dolori, vedendolo come il male personificato pronto a tutto pur di distruggere l’altro. Quindi l’unica modalità per uscirne vivo e non restarne sopraffatto è di attaccare a sua volta, innescando così un circolo vizioso che ha al suo centro una conflittualità molto accesa e senza alcuna possibilità di comprensione reciproca.
Tendono in questo modo ad esprimere il conflitto attraverso: competizione; violenza; ostilità; potere sull’altro inteso come Io vinco-Tu perdi.
Possiamo vedere di conseguenza il conflitto come la scoperta improvvisa della diversità dell’altro che il soggetto tende in genere a negare, proprio per poter salvare e salvaguardare la relazione. La caratteristica negativa nel conflitto non sta nel fatto che è presente, ma riguarda la relazione negativa che attua. Le aree in cui s’inizia ad insinuare il conflitto sono numerose. La più importante è quella che riguarda la sfera della comunicazione. È qui che si danno inizio alle maggiori incomprensioni nella coppia; infatti, nel conflitto si opera in ogni messaggio trasmesso una sorta di alterazione che non va verso la comprensione, ma tende sempre di più ad aggravare la conflittualità già presente, distaccandosi sempre di più dal tema originario facendo scivolare sempre più la relazione nel baratro. Questo tipo di conflitto non risulta mai sano e positivo nella risoluzione di un conflitto all’interno della relazione, poiché la cattiva qualità comunicativa impedisce che si possa arrivare a comunicare correttamente le carenze comunicative. Ed ecco che il conflitto sulla comunicazione diviene patologico, nel senso che nel suo esistere tende a mantenere la situazione altamente ostile molto a lungo nel tempo.
Possiamo affermare, che una situazione di piena ostilità in una coppia rappresenti un evento critico, una crisi in cui troviamo una frattura tra desiderio e realtà. Ed è attraverso questa crisi che molte volte si giunge alla decisione estrema, la separazione, portando nella vita dei due ex una sorta di lutto da separazione.

pubblicato su: www.igeacps.it

sabato 21 maggio 2011

Il gruppo omogeneo nel sostegno della gestione del peso e del cattivo rapporto con il cibo.

"Un gruppo di persone che condivide
un obiettivo comune può
raggiungere l'impossibile." (Anonimo)

Ricordiamo tutti il detto che il gruppo fa la forza. Così come nel gruppo in genere riusciamo a prendere la nostra forza interiore e raggiungere ogni nostro scopo, nel gruppo omogeneo troviamo la vera energia, questo perché il gruppo omogeneo rappresenta una realtà terapeutica caratterizzata dalla presenza di persone che condividono lo stesso tipo di sintomo, diagnosi o tipologia di problema. La presenza di persone affette da una problematica simile alla propria rende infatti, i partecipanti restii ad entrare in relazione reciproca e grazie alla possibilità di condividere i propri vissuti e il proprio dolore con persone capaci di comprenderlo riescono più facilmente a sollevarsi dalla condizione di solitudine così da procedere verso la possibilità di rielaborare uno spazio personale, in cui sia possibile recuperare un rapporto autentico con se stessi.
Ma il gruppo omogeneo non opera solo come semplice rispecchiamento della propria situazione o sofferenza, ma fa quasi da contro-campo rispetto a tutto ciò che fino a poco prima veniva vissuto come diverso, altro, questo perché il parlare, il confrontarsi e il discutere di elementi che accomunano offrono un’apertura verso ciò che non rappresenta la caratteristica unificante del gruppo, creando così in ciascun membro una sorta di movimento psichico interno, che porta al cambiamento.
Ma perché il gruppo omogeneo è così importante in situazioni di gestione del peso o di problemi alimentari?
È una risorsa importante perché in genere ci troviamo davanti a chi ha come caratterizzazione principale fragilità del Sé, scarsa autostima, difficoltà nelle relazioni interpersonali e ritiro sociale. “Se all'inizio del gruppo i membri si riconoscono grazie al sintomo, è grazie al gruppo e alla terapia che potranno riconoscere che al di là del sintomo vi è un'identità unica che ha bisogno di esprimersi, senza alcun espediente. Lo spazio gruppale dà la possibilità di rielaborare lo spazio personale, al contrario di quanto potrebbe accadere in un setting duale, in cui ci si potrebbe sentire invasi dalla figura del terapeuta, vissuta come figura genitoriale” (Vasta, Caputo 2004).
Attraverso il gruppo chi soffre di queste problematiche riesce a ritrovare la giusta distanza, usando una metodologia cognitivo-comportamentale e creando una relazione di tipo educazionale o ri-educazionale, si riesce a vedere il vero se stesso attraverso gli occhi dell’altro in modo critico e trovando le giuste motivazioni al cambiamento.
Nel trattamento di chi soffre di disturbi alimentari o comunque di cattive abitudini alimentari, il gruppo omogeneo può essere utilizzato in almeno tre diverse declinazioni:
1) gruppo psico-educazionale. II gruppo psico-educativo si fonda sull'assunto che i soggetti hanno delle convinzioni erronee sui fattori che hanno causato e stanno perpetuando i loro problemi, dunque la consapevolezza di tali fattori diminuirebbe i comportamenti disfunzionali. Ci si propone così di fornire ai pazienti le cognizioni necessarie ad estinguere comportamenti contrastanti con i principi nutrizionali di base, attraverso l'esplicazione delle ragioni bio-fisiologiche per cui certe condotte alimentari risultano disfunzionali per l'organismo e utilizzano anche tecniche di decondizionamento comportamentale.
2)gruppo di auto-aiuto. Qui l'obiettivo principale è il sostegno emotivo attraverso la rottura dell'isolamento e la condivisione reciproca, con lo scopo di migliorare le capacità psicologiche e comportamentali dei partecipanti.
3) gruppo omogeneo monosintomatico. La monosintomaticità in particolare, favorisce l'uscita dalla solitudine angosciante e alienante, dal sentirsi un "mostro", favorisce la certezza di sentirsi accettati e compresi. Condividere una stessa problematica riduce l'angoscia persecutoria e di frammentazione caratteristica della presenza dell'estraneo.

Quindi è uno spazio fatto di storie, di fantasie, di emozioni, di pensieri personali e allo stesso tempo universali, è il luogo in cui è possibile mettersi in gioco e sperimentare altre passioni, riassestare relazioni. Il gruppo infatti, parla, sostiene e si sostiene, aprendo in modo assolutamente graduale, la via alle parole di un soggetto che in molti casi non è mai stato tale e, che non si è potuto legittimare e prendere il suo spazio.
Il gruppo, diventa il luogo in cui è possibile mettersi in gioco, sperimentare sentimenti ed emozioni, consente a ogni suo componente un’esperienza di appartenenza e di affermazione del diritto di esistere che a molti di loro non è stato riconosciuto nell’ambito della famiglia durante l’infanzia. Ognuno trova sé stesso in e attraverso gli altri, in un gioco di rimandi continui. "Qualcosa di altri evoca delle cose dentro di me e ciò mi consente di guardarle"(Pines,1983).









Bibliografia.

Bion W. R., Esperienze nei gruppi, Armando ed. Roma 1971
Neri C., Gruppo, Borla , Roma 1995
Pines M., Fattori terapeutici nella psicoterapia gruppoanalitica, Quaderni di psicoterapia di gruppo. I, 1, 1983
Vasta, F. N., Caputo, O., Introduzione storica alla terapia di gruppo nel trattamento del disturbo anoressico-bulimico. In Funzione Gamma, 14: Gruppo con pazienti anoressiche: Fattori terapeutici 2004.

sabato 30 aprile 2011

I peccati capitali: seconda parte

Gola.


L'ingordigia è un rifugio emotivo:
è il segno che qualcosa ci sta divorando.
Peter De Vries, Comfort Me with Apples, 1956

Un altro dei peccati capitali è quello che riguarda la gola. Nei discorsi e le opinioni che compongono la nostra vita chi “soffre” del peccato di gola è colui che mangia, mangia, mangia fino quasi a scoppiare, chi facendo in questo modo viola il proprio corpo sformandolo e facendolo soffrire fino ad arrivare a volte alla morte.
Pensando alla gola mi viene in mente un mito, quello di Erisittone, uomo pieno di ricchezze la cui unica gioia era accumulare, che per arricchirsi ancora di più decidere di tagliare il bosco sacro consacrato ad Demetra, ebbene viene condannato a soffrire di una fame incessante, devastante che non potrà mai saziare. Così per nutrirsi si trova costretto a usare tutti i suoi averi e alla fine impazzito si troverà costretto a divorare se stesso.
Dal punto di vista psicologico, quindi, possiamo far risalire il peccato di gola ad una situazione di disagio emotivo-psicologico che non riesce a trovare altro sfogo se non nel ricorso al cibo. Si usa lo strumento-cibo per sentirsi meglio in una situazione di tristezza, noia o frustrazione, passando così da una visione di cibo come aspetto della vita da gustare, assaporare ad una che vede gli alimenti come un qualcosa che viene a colmare il vuoto appena creatosi.
Siamo dinanzi ad una situazione di compensazione emotiva, in cui per evitare di sentirsi divorati dalle proprie emozioni si mangia il cibo. Ecco colui che ci è sempre disponibile, silenzioso e non giudicante, colui che ci risolleva (momentaneamente) dalla situazione frustrante che ci si è creata intorno. Così si mangia e si mangia di tutto ed ecco il dilagare dei nuovi disturbi alimentari legati all’abbuffarsi come: l’abbuffata compulsiva, il Binge Eating Disorder, l’obesità, la bulimia.
Ma il peccato di gola non comprende solo ed esclusivamente un eccesso che porta all’abbuffata, ma anche: il ricorso al cibo nelle situazioni di pura golosità. A chi non è mai capitato di passare dinanzi ad una pasticceria, fermarsi davanti la vetrina e sentire arrivare sotto le proprie narici un invitante profumo di cornetto appena sfornato e nonostante si sia fatta colazione, nonostante il nostro senso di sazietà sia pieno fino all’orlo ci si avvia verso il bancone del bar chiedendo quel famoso cornetto che appagherà non solo il nostro naso ma il nostro palato; e le situazioni di deprivazione totale che caratterizza chi è affetto da anoressia. Ci si priva di tutto ciò che è cibo lanciando un grido di aiuto che in quel momento non si riesce a riconoscere, a elaborare, a verbalizzare arrivando nei casi più estremi alla morte.
Ecco che riconosciamo l’importanza di creare un nostro equilibrio nutrizionale, riconoscendo il sano modo di alimentarsi, anche cedendo a volte al nostro peccato di gola, ma con la consapevolezza di ciò che in quel momento stiamo facendo rendendolo solo un momento occasionale della nostra vita.

Accidia.

La cosa più deliziosa non è non aver nulla da fare:
è aver qualcosa da fare, e non farla
Marcel Achard

L’accidia così come la gola è sicuramente uno dei peccati capitali più diffusi, quello che almeno una volta nella vita ognuno di noi ha “provato” abbandonandosi su un prato, sulla spiaggia, sul divano nella nostra casa o su un amaca.
L’accidia è intesa come l’avversione ad operare, a muoversi accompagnata da tedio e pigrizia.
Così come tutti i peccati capitali che abbiamo visto fino ad ora anche l’accidia è possibile inquadrarla in chiave psicologica prendendola nella sua estremizzazione. Infatti, mentre ogni tanto sembra assolutamente giusto e normale per ciascuno di noi abbandonarsi al “dolce far niente”, per alcuni di noi questa sensazione di abbandono può trasformarsi in una trappola, un buca da cui non si riesce a vedere la luce, la via d’uscita.
Decidere di non fare nulla, di restare li fermi, senza muovere un muscolo, non lasciarsi trasportare dal minimo desiderio di raggiungere un obiettivo, evidenziano un disagio interiore grave ed condurre una persona nell’intricato e spaventoso labirinto della depressione.
L'accidia ha un carattere complesso e confuso in quanto è un miscuglio di pensieri provenienti da forze diverse. Chi è colpito dall'accidia avverte un senso di disordine e di illogicità in cui si intrecciano reazioni contrastanti: si detesta tutto ciò che si ha e si desidera ciò che non si ha. Si inizia a percepire che tutta la propria esistenza perde di tensione, è come allentata in un senso di vuoto, nella noia e nella svogliatezza, in una incapacità di concentrarsi su una determinata attività, nella spossatezza e nell'ansia. Viene a mancare un polo che riesca a stimolare tutte le componenti della persona che si stanno attenuando.
A causa dell'angoscia e dell'ansietà, la vita inizia a prendere le sembianze di uno specchio su cui non ci sono punti di appoggio, non vi sono più punti sicuri, ci si ritrova senza certezze.
Altri sintomi dell'accidia sono l'indifferenza è l'instabilità. Questa instabilità si manifesta in diversi modi: dal cambiare casa o posto lavoro, al fuggire verso situazioni ritenute ideali; dall'instabilità di umore a quella di giudizio; dall'instabilità nei rapporti interpersonali alla sfiducia totale verso se stessi.
Anche la ricerca di sempre nuove emozioni e divertimenti e la paura di lasciare spazi vuoti da impegni sono palliativi di fronte a una situazione esistenziale che si minaccia vuota e priva di senso. Un ultimo sintomo dell'accidia è l'impossibilità per l'uomo di vedere qualche cosa di buono e di positivo: tutto viene ridotto al negativismo e al pessimismo assoluto. L'insoddisfazione diventa la modalità normale di affrontare l'esistenza, e spesso anche ogni possibilità di futuro diventa inimmaginabile.
Ma come tutte le cose che fanno parte della vita di ognuno di noi possiamo trovare la chiave per superarli, affrontarli. Combattere l'accidia significa, quindi potersi sentire nuovamente capaci di lottare per la realizzazione dei propri sogni e dei propri progetti, significa riuscire a restituire all'individuo la capacità di tornare a sperare e di costruire il proprio mondo interiore nel miglior modo possibile, senza limitarsi ad agognare ciò che non si è avuto, significa, anche, ridistribuire le proprie forze sulla base della valutazione delle proprie possibilità e così liberarsi da quella sensazione di disprezzo e stanchezza verso i propri impegni di vita che ci ha accompagnato fino a poco tempo prima.
Essere produttivi nella vita di tutti i giorni, dotarsi di tranquillità e perseveranza, mettersi in discussione e riuscire a non dare mai nulla per scontato è il di certo la formula necessaria per assaporare un’esistenza più intensa e degna di essere vissuta.

lunedì 11 aprile 2011

Il benessere psicologico


A maggio si svolgerà il mese del benessere psicologico nel mio studio presso via Nicola Serra 74, con il primo colloquio gratuito, prenota il tuo colloquio per riuscire a scoprire insieme le competenze e gli strumenti che ciascuno di noi possiede.
per info contattatemi sul blog o via mail: elviradoc@libero.it
o orario di studio al numero: 3490581247

lunedì 28 marzo 2011

L'importanza psicologica del diario alimentare nella terapia integrata psicologo-nutrizionista


I motivi per cui ognuno di noi decide di cambiare stile i vita sono molteplici, così come sono molteplici i perché si decide di cambiare stile alimentare. Tra i più diffusi troviamo il non riuscire a vedere il proprio corpo e il proprio aspetto così come lo si vorrebbe. “Ogni dieta comincia con un cattivo pensiero sul nostro corpo ” (Spalletta, 2010 ). È dimostrato scientificamente che la maggior parte delle persone che decidono di mettersi a dieta lo fa perché è insoddisfatta della propria immagine riflessa allo specchio; è quindi che entra in gioco la terapia integrata psicologo-nutrizionista e l’importanza del diario alimentare per creare l’equilibrio fisico-mentale. Questo perché per raggiungere gli obiettivi prefissati da un nuovo regime alimentare è necessario apprendere delle nuove abitudini alimentari, modificare il proprio stile di vita e soprattutto prendere coscienza di tutte quelle emozioni che inducono tutti noi ad usare il cibo come un antidoto di ansia, stress e tristezza.
Ma perché è così importante quindi il diario alimentare? Grazie al suo uso possiamo rilevare non solo i gusti gastronomici di chi ci troviamo di fronte, l’errore alimentare messo in atto, quanto e quando si dedica all’attività fisica e all’ascolto delle proprie emozioni e desideri. Dal punto di vista psicologico l’importanza che riveste il diario nei confronti del paziente è soprattutto di tipo catartico, in quanto rende note alcune emozioni a cui prima non si era pensato, ne evidenzia gli aspetti di quelle che già si conoscono portando il soggetto a elaborarle e lavorarci sopra per migliorarle con il supporto psicologico.
Ecco perché il diario alimentare è uno strumento fondamentale nella terapia integrata, aiuta il paziente e supporta il nutrizionista e lo psicologo nel percorso, per quattro semplici motivi:
• Si ha un quadro completo di ciò che la persona consuma durante la giornata: questo aiuterà sia il paziente a rendersi conto di cosa effettivamente mangia e sia il nutrizionista nel capire così bisogna cambiare, modificare o lasciare nel nuovo stile alimentare;
• Riduce i rischi della fame nervosa: questo perché di fianco ad ogni alimento il paziente segnerà l’emozione che accompagna l’assunzione di quel determinato cibo. Questo permetterà nel lavoro con lo psicologo di cogliere alcuni momenti di fame emotiva o emozioni negative su cui lavorare, elaborare e modificare così da diminuire e con il tempo eliminare l’assunzione di cibo guidata dalle emozioni;
• Evitare un abbassamento della motivazione alla dieta: permetterà con il lavoro congiunto di nutrizionista e psicologo di evitare dell’empasse che potrebbero portare il paziente a non seguire più la dieta. Ci si potrebbe trovare di fronte ad affermazioni del tipo “ mangio sempre le stesse cose” oppure “seguo diligentemente la dieta ma non ho risultati!”; attraverso il diario alimentare si potranno notare che i pasti cambiano di settimana in settimana, o che in quel periodo presi da alcuni attacchi di fame emotiva ci si è abbandonati ad altri cibi;
• Vedere nero su bianco i risultati: attraverso l’osservazione del diario alimentari si potranno notare i successi del paziente.
Possiamo quindi ben capire come il diario alimentare sia uno strumento più che utile nella riuscita di una dieta e di un percorso personale, in cui nutrizionista e psicologo vi accompagneranno per mano nella creazione del vostro nuovo stile di vita.


Bibliografia.

Dalle Grave R., “Perdere e mantenere il peso”, Positive Press, Verona, 2004.
Dalle Grave R., Pasqualoni E., “Il Diario Alimentare Aidap Uno strumento scientifico per la gestione del peso”, Positive Press, 2008.
Spalletta E., “Cibo per vivere…vivere per il cibo cosa fare quando fame, peso e corpo diventano un’ossessione”, Sovera edizioni, Roma, 2010.

martedì 22 marzo 2011

AVVISO IMPORTANTE!! gruppo di sostegno per la gestione del peso


Il gruppo di sostegno per la gestione del peso inizierà nel mese di aprile stiamo raccogliendo le adesioni al gruppo.......ricordati se vuoi partecipare e condividere con noi il tuo percorso chiama il 3490581247 oppure manda un mail a: elviradoc@libero.it

mercoledì 9 marzo 2011

Gruppo di sostegno per la gestione del peso


Gruppo di sostegno nella gestione del peso.
Tra corpo e mente:
impariamo a gustarci il sapore dell’equilibrio.

Perché seguire un gruppo di sostegno?
Condividere esperienze personali, emozioni e pensieri sviluppa autoconsapevolezza e uno spiccato senso di fiducia nelle proprie competenze e potenzialità e quindi anche nella capacità di riuscire a seguire i passi necessari alla riorganizzazione del rapporto con il cibo, all’equilibrio del peso e al mantenimento dei risultati conseguiti.

A chi è rivolto?
A chi ha già più di una volta iniziato una dieta, a chi ne inizia per la prima volta una. Per tutti coloro che vogliano scoprire l’immagine positiva di sé per continuare il proprio percorso verso una corretta alimentazione e uno stile di vita ad esso correlato, raccontandosi e condividendo la propria esperienza.

Perché?
Disporre di informazioni corrette sulla nutrizione;
Sostenere i passi che si faranno per perdere peso attraverso la forza e il sostegno del gruppo;
Sviluppare la responsabilità personale costruttiva;
Accrescere l’autostima;
Incentivare la motivazione all’autorealizzazione;
Migliorare la gestione dello stress e dei conflitti che si possono creare durante un percorso di dieta;
Sostenere lo stile di vita attivo.

Quando?
Ogni due mercoledi del mese dalle 19.30 alle 21.00. Durante il percorso di sostegno si organizzeranno incontri con specialisti, esperti nel campo dell’alimentazione, relazione d’aiuto e tecniche espressive, per eventuali curiosità e dubbi dei partecipanti.
Per informazione Dott.ssa Orrico Elvira
tel: 3490581247

venerdì 25 febbraio 2011

I sette peccati capitali. Prima parte

L’invidia.


Nella vita di tutti giorni, osservando i nostri comportamenti e quelli delle persone che ci circondano possiamo trovare al loro interno “schegge” di ciò che comunemente conosciamo come i sette peccati capitali. Se prendiamo in considerazione, sia il concetto in sé di peccato capitale, sia come i sentimenti che lo compongono agiscono nel e sull’uomo dal punto di vista psicologico, possiamo affermare che semplicemente sono un’espressione del sentire umano. A lungo andare però, possono anche diventare una conseguenza dei problemi psicologici che disturbano l'esistenza e che minacciano l'equilibrio emotivo in ciascun essere umano. Osservando i sette peccati capitali (superbia, ira, gola, invidia, avarizia, lussuria, accidia) si evidenzia che alla loro base comune vi è il fatto di identificarsi tutti come eccessi: esagerazioni di una caratteristica ben precisa. Di conseguenza una volta che si arriva all’eccesso si sperimenta nell’essere umano una forma di “mancanza”, da cui scaturisce il concetto di peccato (cattolico) e una sorta di carenza nella stabilità psicologica. Esaminiamo ora da vicino ad uno ad uno ciascun peccato capitale; partiamo dall’invidia.

Gli uomini non conoscono la propria felicità,
ma quella degli altri non gli sfugge mai.
Pierre Daninos, Un certo signor Blot, 1960

Il termine invidia deriva dal latino in-videre, guardare sopra, che sottolinea l’aspetto visivo tipico della persona invidiosa, ovvero lo sguardo con occhio malevolo e aggressivo nei confronti del soggetto/oggetto che muove la sua invidia. Può manifestarsi sia verso un bene materiale ma anche verso una qualità del soggetto, quindi qualcosa di immateriale, che l’altro possiede e che il soggetto invidioso ritiene di non poter mai avere.
Gerrod Parrot, ricercatore presso l'Università Georgetown a Washington precisa che l'invidia è la sofferenza per la mancanza di qualcosa che altri hanno (denaro, successo..). Si basa su una forte ambivalenza; infatti se da una parte abbiamo un’invidia mossa dal fatto che noi non possediamo ciò che gli altri possiedono dall’altro si vuole che gli altri perdano ciò che possiedono.
Ma perché si innesca il sentimento dell’invidia? Alla base della persona invidiosa si riscontra sicuramente un basso livello di autostima con una conseguente sovra-valutazione dell’altro. Il concetto di autostima (la considerazione che il soggetto ha di sé) è sottoposto a delle oscillazioni dovute a vicissitudini personali, che hanno origine già nell’infanzia e nell’adolescenza: situazioni di conflitto, eccessiva competitività accentuata dall’ambiente circostante, ma anche e soprattutto bisogni e desideri non esauditi che possono essere causa di frustrazioni.
Il risultato di queste dinamiche impedisce all’autostima di assestarsi su un livello adeguato, ma tende piuttosto ad oscillare ad un livello medio basso spesso associato ad un senso di inadeguatezza.
Proviamo ad osservare una situazione di lavoro in cui due dipendenti, entrambi sullo stesso piano, svolgono le stesse mansioni nello stesso modo. L’invidioso, vedrà anche nel semplice permesso di lavoro concesso al collega un modo per attaccare, “distruggere” l’altro perché, anche “solo chiedendolo”, è riuscito ad avere un permesso di lavoro, mentre lui ogni volta deve lavorare duro per riuscire ad averlo! Quindi l’altro diventa il solo e unico colpevole del fatto che viene stimato e considerato di più da parte del datore di lavoro, “lui non lo merita” in fondo fa meno di quello che l’invidioso fa sul lavoro!!! In più il fatto di sapere che la persona oggetto della sua invidia non capisce e non reagisce a quello che lui mette in opera, non fa altro che aumentare in lui il rancore e l’ostilità provata.
Così colpisce l’invidia, espressione di un desiderio che non si riesce a esperire e visto che non esiste uomo senza desiderio non esiste un uomo che non sia o possa essere invidioso. Dopotutto, a ben pensarci ci portiamo dietro fin dall’infanzia esempi di aspetti di persone invidiose che agiscono contro l’altro solo ed esclusivamente mossi da questo impulso. Proviamo a pensare alle varie favole che ci venivano lette per addormentarci dai nostri genitori; abbiamo ad esempio la matrigna di Biancaneve che ogni qualvolta si rivolge alle specchio per sapere chi è la più bella del reame si vede rispondere che la figliastra lo è, e più lo chiede più monta dentro di lei la rabbia e l’invidia che sfocerà dapprima nel mandare il cacciatore ad ucciderla e di conseguenza, visto il suo fallimento, andrà lei stessa sotto mentite spoglie a eliminare il motivo della sua invidia, consapevole che quello sarà l’unico modo per liberarsene, poiché lei non riuscirà mai ad uguagliare la bellezza di Biancaneve.
Esistono tre diverse categorie in cui racchiudere l’invidia: l’invidia depressiva in cui la persona si mette in disparte e cerca di non pensare, espressone tipica è: “questo a me non succederà mai!”; invidia emulativa la cui espressione è: “è assolutamente normale che sia stato promosso, ha lavorato sodo!” e si cercherà di emularlo per avere la prossima promozione; infine abbiamo l’invidia ostile, la cui espressione tipica è: “non posso proprio sopportare che abbiano promosso lui e non me, quell’incapace!” e si cercherà in tutti i modi di ridicolizzarlo davanti a tutti.
L’invidia è quindi un sentimento che può diventare altamente patologico, fino a sostituire l’idea dell’invidioso di distruggere l’altro da pensiero ad azione, danneggiandolo fisicamente.
Caino uccide Abele per invidia, Lucifero invidia Dio e da angelo diventa diavolo. L’assassinio più grave di tutta l'umanità ha un movente ben preciso: l'invidia. Gesù, il Figlio di Dio, viene consegnato e ucciso perché «Pilato sapeva benissimo che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia». (Mc 15, 10).

La superbia.



Quando viaggio mi piace avere qualcosa di interessante da leggere,
per questo porto sempre con me il mio diario. (Oscar Wilde)
La superbia, tra i sette peccati capitali, è considerato “il grande peccato”. Essa, come d’altra parte anche gli altri, non identifica una specifica persona, ma un atteggiamento psicologico presente – in misura diversa – dentro ognuno di noi. La superbia affonda le sue radici nel profondo dell’essere umano, perché attraverso atti di superbia l’uomo cerca di affermare la propria identità, la propria personalità e ciò che ritiene di saper fare. Ecco perché ha bisogno del riconoscimento dell’altro, perché la propria identità e personalità si plasma attraverso il vivere, l’esistenza e quindi anche l’affermazione e la negazione di sé o di come ci si presume si sia da parte dell’altro.
A volte si tende ad associare il superbo con il narcisista, in realtà il superbo non ama se stesso senza alcun fine, come potrebbe fare il narcisista, ma deve mostrare il meglio di se stesso agli altri per essere riconosciuto, non tollera contraddizioni a ciò che dice e gli piace accompagnarsi dai suoi adulatori! Il superbo ha bisogno di sentirsi superiore. Questo bisogno si traduce in un'apparenza del suo modo di agire. Il superbo "vuole" così apparire superiore, quindi la sua realtà è sempre abbellita, depurata dei particolari che potrebbero sminuirla e interpretata in modo che si accendano i riflettori su di lui. A causa del confronto con gli altri, il superbo esercita una forza psicologica esagerata, senza nessun motivo. L'umiliazione che fa provare al perdente infatti è la sua gratificazione esistenziale.
La superbia è sottilmente imparentata con l'invidia, poiché il superbo, se da un lato tende a superare sempre gli altri, e ogni qual volta viene superato dagli altri non trova alcuna rassegnazione, e l'effetto di questa mancata rassegnazione è l'invidia. Al pari dell'invidia, anche la superbia ha un carattere "relazionale" nel senso che nessuno mostra la sua superbia solo a se stesso, in estrema solitudine, ma sempre in relazione agli altri, di cui ha un assoluto bisogno per poter esprimere nei loro confronti la sua superiorità.
Da quello che possiamo notare la superbia è una dinamica psicologica complessa, le cui radici possiamo far risalire nei primissimi mesi di vita. Si origina molto spesso da un mancato riconoscimento da parte delle persone che si prendono cura del bambino, un legame di attaccamento evitante. Quando parliamo di riconoscimento intendiamo un’intima disponibilità del genitore ad accettare una nuova persona nella sua famiglia, nella sua specifica unicità ed originalità. La naturale difficoltà o l’incapacità del genitore di riuscire ad accogliere e a comprendere l’identità profonda del bambino, pone le basi, le prime cellule di quello che potrebbe essere un futuro adulto “ignorato” e messo da parte.
Quindi possiamo vedere il superbo come un “peccatore” per difendersi dalle situazioni che gli si sono presentate da bambino e che potrebbero ripresentarsi da adulto. Ecco perché si costruisce intorno a se questo castello i cui abitanti, meritevoli di abitarci, sono solo i suoi adulatori.

domenica 6 febbraio 2011

MIP Maggio d'Informazione Psicologica




MAGGIO DI INFORMAZIONE PSICOLOGICA GRATUITA
EDIZIONE 2011


Vi scrivo per informarvi che nell’ambito dell’iniziativa denominata “Maggio di informazione psicologica” (MIP), da Maggio 2011, mese della prevenzione e del benessere psicologico, sarà possibile effettuare un colloquio psicologico gratuito. Potrete consultare il sito di riferimento http://www.psicologimip.it/ per conoscere i dettagli dell’iniziativa.

Per tutto il mese di Maggio, su tutto il territorio nazionale, potrete scegliere gli Psicologi e gli Psicoterapeuti MIP che vi dedicheranno in modo assolutamente gratuito parte del proprio tempo promuovendo la cultura psicologica, offrendo un colloquio a coloro che ne faranno richiesta.
Attraverso questo sito troverete i nomi degli Psicologi, che come me hanno aderito al MIP. http://www.psicologimip.it/psicologimip.asp.
Nel mese di Maggio 2011, all’interno dell’iniziativa MIP, verranno promossi quindi vari eventi informativi che tratteranno di Psicologia. L’obiettivo di tali eventi sarà di sviluppare nelle persone un’adeguata cultura psicologica, fornendo informazioni corrette sulla Psicologia e sugli Psicologi, così da fare avvicinare e sensibilizzare la popolazione alle tematiche di carattere psicologico.




Attraverso il sito http://www.psicologimip.it/iniziativemip.asp potrete scegliere uno degli eventi formativi gratuiti MIP presenti nella vostra zona di residenza.


vi ringrazio per la vostra attenzione
dott.ssa Orrico Elvira

venerdì 14 gennaio 2011

La figura del mediatore familiare.


La parola mediazione, di derivazione latina, allude allo “stare nel mezzo”.
La mediazione è quel processo collaborativo di risoluzione dei conflitti in cui due o più parti in lite sono assistite da uno o più soggetti, terzi imparziali, mediatori, che attraverso un percorso in più fasi li aiuteranno a ripristinare la comunicazione e trovare da soli la risoluzione ai problemi, accettabile per entrambi.
La mediazione familiare, nello specifico, è un intervento extragiudiziale di tipo psicologico-sociale, il cui ricorso avviene in situazioni di separazione e di divorzio, in occasione dei quali le due parti vengono aiutate a mantenere la continuità dei loro ruoli di genitori a e riuscire a portare alla luce le loro preoccupazioni genitoriali, che continuano ad essere presenti, anche se nascosti dalla rabbia e la tristezza che contraddistingue questo momento.
Attraverso il percorso che intraprende la mediazione familiare aiuta e supporta i due genitori a concentrarsi sui bisogni individuali e sui desideri dei propri figli e ad elaborare dei progetti genitoriali per loro. Detto questo, possiamo ben comprendere come per la riuscita completa del processo di mediazione sia importante la figura di un terzo imparziale e neutrale, il mediatore familiare. Egli invita le due parti a riappropriarsi del proprio ruolo decisionale di genitori, offrendogli una situazione di ascolto, di dialogo, di negoziazione, avendo come obiettivo il riuscire a trovare una sintonia e un accordo sull’organizzazione della loro vita futura, di genitori.
Una cosa molto importante da sottolineare è che il mediatore familiare, pur entrando in una relazione tra due ex-coniugi in conflitto, non prende in alcun modo le decisioni al loro posto, ma li agevola nel ritrovare, riconoscere e lavorare sulle proprie competenze per portare avanti il processo decisionale.
Come detto sopra nella mediazione familiare si attiva un processo di negoziazione tra le due parti, ma non è una negoziazione in senso stretto, in quanto il mediatore familiare non formula delle proposte né orchestra le mutue concessioni solo al fine di arrivare ad ottenere un compromesso accettabile, ma lavora sulla realizzazione di una dinamica relazionale che permetta ai genitori di gestire in prima persona i loro conflitti. Il mediatore familiare assume un ruolo da moderatore che si viene ad immettere in un sistema che ora come ora appare piuttosto disorientato, rappresentato da una famiglia in cui si vanno a modificare tutti i suoi rapporti e che sente la necessità di una nuova forma di riorganizzazione e di un terzo neutrale ed equilibrato che viene ad assumere un ruolo regolativo.

Tale ruolo, afferma Bruno Schettini, può essere indicato in quattro punti:
1. Assicurare la messa in moto di processi comunicativi e negoziali, che costituiscono la condizione precedente per la reale autonomia di entrambi i genitori;
2. Garantire la regolazione della distanza emotiva nei riguardi delle due parti e i problemi che scaturiscono dai contesti, allo scopo di facilitare le decisioni e le prese in carico delle situazioni;
3. Deve presentare costantemente la realtà nelle sue oggettive dimensioni e richiamare i limiti dettati dalla necessità delle situazioni;
4. Contenere la conflittualità, richiamando le parti al loro compito, evitando discussioni che non portano a nulla.


Bisogna comprendere la difficoltà che prova il mediatore nel momento in cui si trova a vivere nel dover strutturare una relazione che coinvolga contemporaneamente due ex-partner, anzi due ex-partner in conflitto. Un primo problema che si trova ad affrontare, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare banale, sta nella difficoltà di mantenere viva e attiva la relazione contemporaneamente con le due parti, anche mentre uno solo di loro sta parlando. Difficoltà che lui riesce a superare solo attraverso la sua specifica competenza nel sapere conservare un costante flusso di comprensione empatica con le due parti.
Ma questo non è il solo problema che il mediatore familiare deve superare, infatti, nella relazione tra le due parti troviamo la seconda preoccupazione, la presenza di un terzo soggetto, la coppia. Molto spesso viene anche apertamente fuori come la relazione che i due ex-coniugi portano, che può sembrare interrotta del tutto a causa del conflitto in atto, ma le coppie che chiedono aiuto, vuoi in vista del ristabilimento del rapporto, vuoi per attuare la separazione, in realtà chiedono in entrambi i casi che questo terzo sia presente di pieno diritto. Loro non riescono a farlo da soli, poiché il conflitto ha fatto in modo da produrre una forte rabbia, interrompendo i normali canali di comunicazione; tutto questo porta anche a fare scomparire ogni forma di empatia reciproca, ma è la stessa coppia che chiede che non sia cancellato tutto ciò che è stato stabilito e il mediatore familiare può farlo spostando l’attenzione delle parti sui figli.

Estratto dalla tesi del master in Mediazione familiare e gestione dei conflitti dal titolo "Ruolo e competenze del mediatore familiare" della dott.ssa Orrico Elvira.

venerdì 7 gennaio 2011

Il dieting: quando il mettersi a dieta diventa un’ossessione




“Narciso, stanco per il lungo andare, si curvò a bere alla fonte, e nelle acque scorse una gratissima immagine.
“Chi è quella bella persona?” Si chiese “Deve essere lo spirito dell’acqua”.
Mai Narciso aveva visto un volto più attraente: era incatato, incapace di distaccarsi da quello che in realtà era soltanto il suo riflesso.
“Bella creatura” supplicò “perché mi sfuggi? Sappi che ogni ninfa dei boschi e dei monti si è innamorata di me” Intanto lacrime di desiderio gli scorrevano lungo le guance e cadevano nell’argenteo pozzo d’acqua, per cui subito l’immagine scomparve.
Non riusciva più a distaccarsi dalla fonte e dalla bella creatura che vi dimorava e Narciso trascorse un giorno dopo l’altro chino sull’acqua, godendosi con lo sguardo il proprio riflesso, senza capire che era il suo. Un po’ alla volta perdeva il colore, diventava trasparente, era ormai solo una cerea immagine di se stesso, uno schiavo d’amore com’era, non se ne accorgeva affatto.
Alla fine Narciso scomparve del tutto e non restò più traccia nel mondo dei viventi; il suo ultimo sguardo, mentre come era sempre era chino sull’acqua, fu per la bella immagine che vi scorgeva.
Le ninfe, che per lui avevano perduto il cuore, raccolsero legna e prepararono una pira funebre, sulla quale avrebbero voluto bru­ciarne il corpo, com’era usanza fare. Ma dei resti di Narciso non si trovò traccia, a parte un fiore a sei petali con un cuore conico, che cresceva sulla sponda della fonte dove narciso era solito inginocchiarsi.
A quel fiore le ninfe diedero il nome del bellissimo giovane e ancora oggi si chiama narciso”.

La fiaba di Narciso è l’emblema della nostra società. Viviamo in una mondo in cui l’aspetto esteriore è tutto, in cui i mass media, e le riviste ci bombardano di immagini di uomini e donne molto magre e in forma che mangiano cibi light o meno, mantenendosi in forma con il minimo dello sforzo e il massimo del sorriso. Ma anche nella vita di tutti i giorni il come si appare riveste sempre più importanza mettendo in disparte il come si è!
E così, il ricorso al corpo perfetto sembra quasi d’obbligo per essere, venire e sentirsi accettati.
Si ricorre alle diete, spesso fai da te, dell’ultimo minuto, sempre più ristrette, anche nel caso in cui la persona non ne ha un reale bisogno, per poter rispettare i canoni dettati dalla società. Uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences (Novembre, 2009) conferma che l’alternarsi di periodi di rinuncia ai cibi più golosi a periodi di abbuffate può generare uno stato di dipendenza dal cibo che crea una seria difficoltà a mantenere il peso. Si manifesta così il dieting. Ovvero la dipendenza dalla dieta, una vera e propria ossessione, dove il mettersi a dieta rappresenta quasi un obbligo. La dieta assume così un altro significato, non più un modo per imparare una giusta alimentazione, ma uno strumento per riuscire a perdere il massimo del peso nel minor tempo possibile per sentirsi riconosciuto come “giusto” dalla società.

I sintomi di questa “dipendenza” sono la classificazione dei cibi e l’esclusione di alcune cose dall’alimentazione, oltre ovviamente all’attenzione esagerata per il peso e la linea. Inoltre, chi è dipendente dalla dieta, si fa prendere da tremendi sensi di colpa quando fa un’eccezione alla regola, e non ci si permette nemmeno un piccolo sfizio come un gelato, una torta, una pizza con gli amici…, tutto per riuscire in quel breve lasso di tempo di rientrare nei canoni.
Ma l’aspetto peggiore del dieting è che non si riesce a smettere. Non basta raggiungere il peso forma, o perdere i chili che si ritengono di troppo: la dieta stessa diventa una specie di “droga”, di cui non si riesce a fare a meno. L’unico strumento da usare nei tempi e nelle modalità che la persona ritiene più opportune.
Le persone che possono entrare nel circolo del dieting sono soprattutto le ragazze, a volte molto giovani. Il meccanismo alla sua base è collegabile al famoso effetto yo-yo, dove ad una fase di dieta eccessiva, spesso frutto del fai-da-te (con la quale si riesce a perder peso nei tempi prestabiliti) segue a distanza di poco tempo la fase di “disinibizione”, nella quale ci si abbuffa e si riguadagnano chili di troppo a seguito del risultato realizzato.
Da ciò che abbiamo detto nel dieting addicted possiamo riconoscere dei tratti distintivi: la prima cosa che viene eliminata sono i dolci a base di cioccolata e creme al cioccolato prediligendo quelli invece a base di yogurt, nei formaggi la fa da padrone il termine light vengono eliminati quelli che non sono ritenuti tali dalla società e dai media; più si va avanti più scompaiono cibi quali i fritti, gli insaccati fino ad arrivare a pasta, pane e pizza e infine tutti i condimenti. Ecco la dieta povera di tutto che aiuta a raggiungere l’obiettivo e a cui si può ricorrere quando si esce fuori dalle regole vigenti.

Come possiamo immaginare dal punto di vista psicologico il dieting e la sua messa in atto porta con sé anche diversi problemi.
Innanzitutto ci troviamo in una situazione di frustrazione psicologica, la persona non si sente frustrata nel momento in cui mette in atto il dieting perché riesce a raggiungere il suo obiettivo nei modi prefissati, ma è la fase di calo che lascia dietro di sé la situazione frustante. Questo perché la fase di calo è caratterizzata dall’eliminazione di molti cibi, come abbiamo precedentemente visto, e in molti casi le difficoltà, le gioie e i momenti di sconforto che una persona quotidianamente vive che prima “sfogava” mangiando ad esempio un cioccolatino, ora non può sfogarlo più così! A volte nonostante la persona sia decisa nel portare avanti la situazione di dieta, non regge il regime rigido autoimpostosi e allora ricorre a uno dei cibi eliminati; sopraggiunge così il senso di colpa.
A lungo andare, questo yo-yo, porta ad un’altra tipologia di frustrazione, ovvero il fisico si adatta alla condizione di ristrettezza bruciando sempre meno calorie e si arriva con sempre più fatica al risultato tanto auspicato. Il problema è che si punta sempre al risultato immediato. Visto che il metabolismo rallenta e il corpo brucia di meno, la persona si trova a vedere sempre più lontani i risultati auspicati e tanto sperati e si innesca di nuovo il meccanismo della frustrazione per questo mancato obiettivo.
Possiamo, quindi, considerare che il sentimento di insoddisfazione per la propria immagine corporea dà luogo ai seguenti disturbi psicologici:


Scarso livello di autostima;
Difficoltà nelle relazioni interpersonali con problemi d’ansia nelle situazioni sociali. In quanto considerare la propria persona come non piacente dal punto di vista fisico, genera paure nelle situazioni sociali e di esposizione personale e induce ad adottare comportamenti di “fuga”;
Problemi nella sfera sessuale. La persona sente che il proprio corpo nudo è brutto ed inaccettabile;
Disturbi depressivi. Questi alimentano il circolo vizioso del rifiuto della propria immagine, fino ad arrivare a vissuti di disper­azione e severa autocritica.
Disturbi della condotta alimentare.
Il dieting a lungo andare potrebbe essere il primo passo verso l’anoressia e la bulimia, o un disturbo alimentare in genere. Questo perché si viene a operare una modifica non solo nel fisico, ma anche nella capacità di ragionare e nel negarsi il cibo così da arrivare a soffocare ansie e insicurezze. Ma al cibo bisogna riconoscere la giusta funzione di nutrizione e gratificazione, anche con l’aiuto di psicologi e nutrizionisti.







Bibliografia.
M. Bettini, E. Pellizer, Il mito di Narciso: immagini e racconti dalla Grecia ad oggi, Einuadi Editore, 2003.
F. Di Maria Psicologia del benessere sociale. Edizioni. McGraw Hill, 2002.

Mangiare: sicuro che è sempre fame?


Mmm!! Non è proprio fame … è più voglia di qualcosa di buono!
Quando ad essere divorati sono le emozioni.


La fame è un inizio di dolore che ci invita a nutrirci; la noia è un dolore che ci costringe a impegnarci in qualche attività, l’amore è un bisogno, se non soddisfatto diviene doloroso (Voltaire).

La relazione che ciascuno di noi instaura con il cibo ha origine dall’infanzia, è il nostro primo mediatore psicologico nel rapporto con la madre. Ed è con la crescita che i genitori, oltre al soddisfacimento della fame con il cibo, ci gratificano nei momenti di sconforto con caramelle, cioccolato o una fetta di torta. E così iniziamo a legare un nostro momento di tristezza e dolore all’assunzione di qualcosa di dolce, che ci ricorda l’infanzia. Quindi il cibo può essere usato sia per soddisfare il nostro bisogno di saziarci e quindi di placare il nostro appetito ma anche per appagare un momento emotivo considerato pericoloso per il nostro equilibrio emotivo.
A chi infatti, non è mai capitato davanti alla televisione oppure tornati a casa dopo una giornata di lavoro molto stressante e frustrante di provare all’improvviso una voglia fortissima e irresistibile di mangiare e una voglia altrettanto irresistibile di placarla?

Ci avviamo verso la nostra dispensa e mangiamo l’alimento che in quel momento più di tutti ci può aiutare, il nostro cibo confort. È così che gli alimenti assumono il ruolo di anestetico, nel momento in cui li assumiamo plachiamo tutti i nostri sentimenti più squilibranti. Siamo in presenza di quello che gli psicologi che studiano il comportamento alimentare chiamano fame emotiva. Ma quali sono i sentimenti che possono portarci a buttarci a capofitto nel cibo?

La fame emotiva è caratterizzata sia da vari stili alimentari che da diverse motivazioni ed emozioni che portano alla necessità di usare il cibo, spesso in grande quantità, per far fronte a situazioni di noia, di ansia, di rabbia o di depressione.
Per fortuna questi attacchi di fame emotiva una volta riconosciuti possono essere evitati e modificati dal nostro comportamento, con il tempo anche in maniera definitiva.
Innanzitutto dobbiamo iniziare a comprendere la differenza tra fame emotiva e fisiologica, in questo possono aiutarci sei caratteristiche:

La fame fisiologica ha un suo percorso di crescita, la fame emotiva esplode all’improvviso;
La fame fisiologica non chiede un’immediata soddisfazione cosa che invece ritroviamo nella fame emotiva, che rimane fissa nella nostra mente fino a quando non la soddisfiamo;
Nella fame fisiologica una volta che si è soddisfatto il bisogno, il senso di fame cessa. Nella fame emotiva, invece il soddisfacimento del bisogno di assunzione di quel cibo è presente nel momento in cui lo si mangia ma cessa come smettiamo di assumere il nostro cibo confort;
Quando si ha fame fisiologica qualsiasi cibo va bene per placarla, anche un piatto di carote, ma nel momento in cui si parla di fame emotiva solo quel determinato alimento può placare momentaneamente il senso di fame;
La fame fisiologica non comporta una volta soddisfatta il senso di colpa, cosa che invece ritroviamo nella fame emotiva;
La fame emotiva deriva da un bisogno psicologico mentre la fame fisiologica è una necessità corporea;

Ma cosa possiamo fare in concreto nel momento in cui ci troviamo in una situazione di fame emotiva? Possiamo seguire due passi fondamentali.
Innanzitutto, dobbiamo riconoscere il sentimento che ci porta alla fame emotiva, dobbiamo iniziare a prendere coscienza della realtà e della situazione che si sta vivendo. Quindi è necessario e utile porsi determinate domande come ad esempio: cosa ci sta spingendo verso quel determinato cibo? A cosa non vogliamo pensare? Se ci rendiamo conto che il nostro ricorrere ai cibi confort è legata ad una situazione di ansia e stress, possiamo spostare queste nostre emozioni su un’altra attività che aiuta a portar fuori l’ansia come ad esempio la meditazione, lo yoga o qualunque altro tipo di sport; o se quello che ci muove è la noia potremmo andare a fare una passeggiata, vedere un film, ascoltare musica.
Il passo successivo ci porta a porci un’altra serie di domande: a cosa ricorriamo quando le emozioni prendono il sopravvento? Qual è il cibo che consumiamo non appena l’ansia o la noia ci assale? Quindi dobbiamo identificare e diventare consapevoli del cibo a cui si ricorre, quanto ne mangiamo, quando lo mangiamo e così riflettere anche su il come e il perché si mangia quel determinato cibo. Questo ci può aiutare ad identificare il nostro cibo-confort e cercare di modificare il nostro ricorso ad esso, una volta riconosciuto. E così una volta individuata la nostra modalità di ricorso al cibo e la tipologia di cibo a cui ricorriamo possiamo passare ad un ultimo passo: rompere definitivamente questo circolo vizioso che lega il cibo alla nostre emozioni. Questo sarà sicuramente la cosa più difficile da fare, ma non sempre la più complicata.
Bisogna tenere in considerazione che non è necessario eliminare del tutto il cibo confort dalla nostra vita, ma lo si può utilizzare in modo intelligente. Se le emozioni spingono più forti e sono sempre più impellenti possiamo comunque accedere alla nostra fonte di confort evitando di ingurgitare, ma piuttosto assaporando ciò che assumiamo in tutti i suoi aspetti: colori, odori e sapori.
Ricordandoci sempre che gratificarsi con consapevolezza e in modo equilibrato, soddisfacendo quindi un nostro bisogno, può essere utile a gestire in modo corretto quelle emozioni che altrimenti avremmo divorato!





Bibliografia

Abramson E., Emozioni e cibo. Positive Press, 2002, Verona.
Canetti L et al., Food and emotion. Behav Processess, 2002, Nov, 60 (2), 157-164.
Rolla E., Bossolasco M. V., Perdo peso. Un programma educativo cognitivo-comportamentale. Gribaudi, 2006. Milano.