venerdì 14 gennaio 2011

La figura del mediatore familiare.


La parola mediazione, di derivazione latina, allude allo “stare nel mezzo”.
La mediazione è quel processo collaborativo di risoluzione dei conflitti in cui due o più parti in lite sono assistite da uno o più soggetti, terzi imparziali, mediatori, che attraverso un percorso in più fasi li aiuteranno a ripristinare la comunicazione e trovare da soli la risoluzione ai problemi, accettabile per entrambi.
La mediazione familiare, nello specifico, è un intervento extragiudiziale di tipo psicologico-sociale, il cui ricorso avviene in situazioni di separazione e di divorzio, in occasione dei quali le due parti vengono aiutate a mantenere la continuità dei loro ruoli di genitori a e riuscire a portare alla luce le loro preoccupazioni genitoriali, che continuano ad essere presenti, anche se nascosti dalla rabbia e la tristezza che contraddistingue questo momento.
Attraverso il percorso che intraprende la mediazione familiare aiuta e supporta i due genitori a concentrarsi sui bisogni individuali e sui desideri dei propri figli e ad elaborare dei progetti genitoriali per loro. Detto questo, possiamo ben comprendere come per la riuscita completa del processo di mediazione sia importante la figura di un terzo imparziale e neutrale, il mediatore familiare. Egli invita le due parti a riappropriarsi del proprio ruolo decisionale di genitori, offrendogli una situazione di ascolto, di dialogo, di negoziazione, avendo come obiettivo il riuscire a trovare una sintonia e un accordo sull’organizzazione della loro vita futura, di genitori.
Una cosa molto importante da sottolineare è che il mediatore familiare, pur entrando in una relazione tra due ex-coniugi in conflitto, non prende in alcun modo le decisioni al loro posto, ma li agevola nel ritrovare, riconoscere e lavorare sulle proprie competenze per portare avanti il processo decisionale.
Come detto sopra nella mediazione familiare si attiva un processo di negoziazione tra le due parti, ma non è una negoziazione in senso stretto, in quanto il mediatore familiare non formula delle proposte né orchestra le mutue concessioni solo al fine di arrivare ad ottenere un compromesso accettabile, ma lavora sulla realizzazione di una dinamica relazionale che permetta ai genitori di gestire in prima persona i loro conflitti. Il mediatore familiare assume un ruolo da moderatore che si viene ad immettere in un sistema che ora come ora appare piuttosto disorientato, rappresentato da una famiglia in cui si vanno a modificare tutti i suoi rapporti e che sente la necessità di una nuova forma di riorganizzazione e di un terzo neutrale ed equilibrato che viene ad assumere un ruolo regolativo.

Tale ruolo, afferma Bruno Schettini, può essere indicato in quattro punti:
1. Assicurare la messa in moto di processi comunicativi e negoziali, che costituiscono la condizione precedente per la reale autonomia di entrambi i genitori;
2. Garantire la regolazione della distanza emotiva nei riguardi delle due parti e i problemi che scaturiscono dai contesti, allo scopo di facilitare le decisioni e le prese in carico delle situazioni;
3. Deve presentare costantemente la realtà nelle sue oggettive dimensioni e richiamare i limiti dettati dalla necessità delle situazioni;
4. Contenere la conflittualità, richiamando le parti al loro compito, evitando discussioni che non portano a nulla.


Bisogna comprendere la difficoltà che prova il mediatore nel momento in cui si trova a vivere nel dover strutturare una relazione che coinvolga contemporaneamente due ex-partner, anzi due ex-partner in conflitto. Un primo problema che si trova ad affrontare, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare banale, sta nella difficoltà di mantenere viva e attiva la relazione contemporaneamente con le due parti, anche mentre uno solo di loro sta parlando. Difficoltà che lui riesce a superare solo attraverso la sua specifica competenza nel sapere conservare un costante flusso di comprensione empatica con le due parti.
Ma questo non è il solo problema che il mediatore familiare deve superare, infatti, nella relazione tra le due parti troviamo la seconda preoccupazione, la presenza di un terzo soggetto, la coppia. Molto spesso viene anche apertamente fuori come la relazione che i due ex-coniugi portano, che può sembrare interrotta del tutto a causa del conflitto in atto, ma le coppie che chiedono aiuto, vuoi in vista del ristabilimento del rapporto, vuoi per attuare la separazione, in realtà chiedono in entrambi i casi che questo terzo sia presente di pieno diritto. Loro non riescono a farlo da soli, poiché il conflitto ha fatto in modo da produrre una forte rabbia, interrompendo i normali canali di comunicazione; tutto questo porta anche a fare scomparire ogni forma di empatia reciproca, ma è la stessa coppia che chiede che non sia cancellato tutto ciò che è stato stabilito e il mediatore familiare può farlo spostando l’attenzione delle parti sui figli.

Estratto dalla tesi del master in Mediazione familiare e gestione dei conflitti dal titolo "Ruolo e competenze del mediatore familiare" della dott.ssa Orrico Elvira.

venerdì 7 gennaio 2011

Il dieting: quando il mettersi a dieta diventa un’ossessione




“Narciso, stanco per il lungo andare, si curvò a bere alla fonte, e nelle acque scorse una gratissima immagine.
“Chi è quella bella persona?” Si chiese “Deve essere lo spirito dell’acqua”.
Mai Narciso aveva visto un volto più attraente: era incatato, incapace di distaccarsi da quello che in realtà era soltanto il suo riflesso.
“Bella creatura” supplicò “perché mi sfuggi? Sappi che ogni ninfa dei boschi e dei monti si è innamorata di me” Intanto lacrime di desiderio gli scorrevano lungo le guance e cadevano nell’argenteo pozzo d’acqua, per cui subito l’immagine scomparve.
Non riusciva più a distaccarsi dalla fonte e dalla bella creatura che vi dimorava e Narciso trascorse un giorno dopo l’altro chino sull’acqua, godendosi con lo sguardo il proprio riflesso, senza capire che era il suo. Un po’ alla volta perdeva il colore, diventava trasparente, era ormai solo una cerea immagine di se stesso, uno schiavo d’amore com’era, non se ne accorgeva affatto.
Alla fine Narciso scomparve del tutto e non restò più traccia nel mondo dei viventi; il suo ultimo sguardo, mentre come era sempre era chino sull’acqua, fu per la bella immagine che vi scorgeva.
Le ninfe, che per lui avevano perduto il cuore, raccolsero legna e prepararono una pira funebre, sulla quale avrebbero voluto bru­ciarne il corpo, com’era usanza fare. Ma dei resti di Narciso non si trovò traccia, a parte un fiore a sei petali con un cuore conico, che cresceva sulla sponda della fonte dove narciso era solito inginocchiarsi.
A quel fiore le ninfe diedero il nome del bellissimo giovane e ancora oggi si chiama narciso”.

La fiaba di Narciso è l’emblema della nostra società. Viviamo in una mondo in cui l’aspetto esteriore è tutto, in cui i mass media, e le riviste ci bombardano di immagini di uomini e donne molto magre e in forma che mangiano cibi light o meno, mantenendosi in forma con il minimo dello sforzo e il massimo del sorriso. Ma anche nella vita di tutti i giorni il come si appare riveste sempre più importanza mettendo in disparte il come si è!
E così, il ricorso al corpo perfetto sembra quasi d’obbligo per essere, venire e sentirsi accettati.
Si ricorre alle diete, spesso fai da te, dell’ultimo minuto, sempre più ristrette, anche nel caso in cui la persona non ne ha un reale bisogno, per poter rispettare i canoni dettati dalla società. Uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences (Novembre, 2009) conferma che l’alternarsi di periodi di rinuncia ai cibi più golosi a periodi di abbuffate può generare uno stato di dipendenza dal cibo che crea una seria difficoltà a mantenere il peso. Si manifesta così il dieting. Ovvero la dipendenza dalla dieta, una vera e propria ossessione, dove il mettersi a dieta rappresenta quasi un obbligo. La dieta assume così un altro significato, non più un modo per imparare una giusta alimentazione, ma uno strumento per riuscire a perdere il massimo del peso nel minor tempo possibile per sentirsi riconosciuto come “giusto” dalla società.

I sintomi di questa “dipendenza” sono la classificazione dei cibi e l’esclusione di alcune cose dall’alimentazione, oltre ovviamente all’attenzione esagerata per il peso e la linea. Inoltre, chi è dipendente dalla dieta, si fa prendere da tremendi sensi di colpa quando fa un’eccezione alla regola, e non ci si permette nemmeno un piccolo sfizio come un gelato, una torta, una pizza con gli amici…, tutto per riuscire in quel breve lasso di tempo di rientrare nei canoni.
Ma l’aspetto peggiore del dieting è che non si riesce a smettere. Non basta raggiungere il peso forma, o perdere i chili che si ritengono di troppo: la dieta stessa diventa una specie di “droga”, di cui non si riesce a fare a meno. L’unico strumento da usare nei tempi e nelle modalità che la persona ritiene più opportune.
Le persone che possono entrare nel circolo del dieting sono soprattutto le ragazze, a volte molto giovani. Il meccanismo alla sua base è collegabile al famoso effetto yo-yo, dove ad una fase di dieta eccessiva, spesso frutto del fai-da-te (con la quale si riesce a perder peso nei tempi prestabiliti) segue a distanza di poco tempo la fase di “disinibizione”, nella quale ci si abbuffa e si riguadagnano chili di troppo a seguito del risultato realizzato.
Da ciò che abbiamo detto nel dieting addicted possiamo riconoscere dei tratti distintivi: la prima cosa che viene eliminata sono i dolci a base di cioccolata e creme al cioccolato prediligendo quelli invece a base di yogurt, nei formaggi la fa da padrone il termine light vengono eliminati quelli che non sono ritenuti tali dalla società e dai media; più si va avanti più scompaiono cibi quali i fritti, gli insaccati fino ad arrivare a pasta, pane e pizza e infine tutti i condimenti. Ecco la dieta povera di tutto che aiuta a raggiungere l’obiettivo e a cui si può ricorrere quando si esce fuori dalle regole vigenti.

Come possiamo immaginare dal punto di vista psicologico il dieting e la sua messa in atto porta con sé anche diversi problemi.
Innanzitutto ci troviamo in una situazione di frustrazione psicologica, la persona non si sente frustrata nel momento in cui mette in atto il dieting perché riesce a raggiungere il suo obiettivo nei modi prefissati, ma è la fase di calo che lascia dietro di sé la situazione frustante. Questo perché la fase di calo è caratterizzata dall’eliminazione di molti cibi, come abbiamo precedentemente visto, e in molti casi le difficoltà, le gioie e i momenti di sconforto che una persona quotidianamente vive che prima “sfogava” mangiando ad esempio un cioccolatino, ora non può sfogarlo più così! A volte nonostante la persona sia decisa nel portare avanti la situazione di dieta, non regge il regime rigido autoimpostosi e allora ricorre a uno dei cibi eliminati; sopraggiunge così il senso di colpa.
A lungo andare, questo yo-yo, porta ad un’altra tipologia di frustrazione, ovvero il fisico si adatta alla condizione di ristrettezza bruciando sempre meno calorie e si arriva con sempre più fatica al risultato tanto auspicato. Il problema è che si punta sempre al risultato immediato. Visto che il metabolismo rallenta e il corpo brucia di meno, la persona si trova a vedere sempre più lontani i risultati auspicati e tanto sperati e si innesca di nuovo il meccanismo della frustrazione per questo mancato obiettivo.
Possiamo, quindi, considerare che il sentimento di insoddisfazione per la propria immagine corporea dà luogo ai seguenti disturbi psicologici:


Scarso livello di autostima;
Difficoltà nelle relazioni interpersonali con problemi d’ansia nelle situazioni sociali. In quanto considerare la propria persona come non piacente dal punto di vista fisico, genera paure nelle situazioni sociali e di esposizione personale e induce ad adottare comportamenti di “fuga”;
Problemi nella sfera sessuale. La persona sente che il proprio corpo nudo è brutto ed inaccettabile;
Disturbi depressivi. Questi alimentano il circolo vizioso del rifiuto della propria immagine, fino ad arrivare a vissuti di disper­azione e severa autocritica.
Disturbi della condotta alimentare.
Il dieting a lungo andare potrebbe essere il primo passo verso l’anoressia e la bulimia, o un disturbo alimentare in genere. Questo perché si viene a operare una modifica non solo nel fisico, ma anche nella capacità di ragionare e nel negarsi il cibo così da arrivare a soffocare ansie e insicurezze. Ma al cibo bisogna riconoscere la giusta funzione di nutrizione e gratificazione, anche con l’aiuto di psicologi e nutrizionisti.







Bibliografia.
M. Bettini, E. Pellizer, Il mito di Narciso: immagini e racconti dalla Grecia ad oggi, Einuadi Editore, 2003.
F. Di Maria Psicologia del benessere sociale. Edizioni. McGraw Hill, 2002.

Mangiare: sicuro che è sempre fame?


Mmm!! Non è proprio fame … è più voglia di qualcosa di buono!
Quando ad essere divorati sono le emozioni.


La fame è un inizio di dolore che ci invita a nutrirci; la noia è un dolore che ci costringe a impegnarci in qualche attività, l’amore è un bisogno, se non soddisfatto diviene doloroso (Voltaire).

La relazione che ciascuno di noi instaura con il cibo ha origine dall’infanzia, è il nostro primo mediatore psicologico nel rapporto con la madre. Ed è con la crescita che i genitori, oltre al soddisfacimento della fame con il cibo, ci gratificano nei momenti di sconforto con caramelle, cioccolato o una fetta di torta. E così iniziamo a legare un nostro momento di tristezza e dolore all’assunzione di qualcosa di dolce, che ci ricorda l’infanzia. Quindi il cibo può essere usato sia per soddisfare il nostro bisogno di saziarci e quindi di placare il nostro appetito ma anche per appagare un momento emotivo considerato pericoloso per il nostro equilibrio emotivo.
A chi infatti, non è mai capitato davanti alla televisione oppure tornati a casa dopo una giornata di lavoro molto stressante e frustrante di provare all’improvviso una voglia fortissima e irresistibile di mangiare e una voglia altrettanto irresistibile di placarla?

Ci avviamo verso la nostra dispensa e mangiamo l’alimento che in quel momento più di tutti ci può aiutare, il nostro cibo confort. È così che gli alimenti assumono il ruolo di anestetico, nel momento in cui li assumiamo plachiamo tutti i nostri sentimenti più squilibranti. Siamo in presenza di quello che gli psicologi che studiano il comportamento alimentare chiamano fame emotiva. Ma quali sono i sentimenti che possono portarci a buttarci a capofitto nel cibo?

La fame emotiva è caratterizzata sia da vari stili alimentari che da diverse motivazioni ed emozioni che portano alla necessità di usare il cibo, spesso in grande quantità, per far fronte a situazioni di noia, di ansia, di rabbia o di depressione.
Per fortuna questi attacchi di fame emotiva una volta riconosciuti possono essere evitati e modificati dal nostro comportamento, con il tempo anche in maniera definitiva.
Innanzitutto dobbiamo iniziare a comprendere la differenza tra fame emotiva e fisiologica, in questo possono aiutarci sei caratteristiche:

La fame fisiologica ha un suo percorso di crescita, la fame emotiva esplode all’improvviso;
La fame fisiologica non chiede un’immediata soddisfazione cosa che invece ritroviamo nella fame emotiva, che rimane fissa nella nostra mente fino a quando non la soddisfiamo;
Nella fame fisiologica una volta che si è soddisfatto il bisogno, il senso di fame cessa. Nella fame emotiva, invece il soddisfacimento del bisogno di assunzione di quel cibo è presente nel momento in cui lo si mangia ma cessa come smettiamo di assumere il nostro cibo confort;
Quando si ha fame fisiologica qualsiasi cibo va bene per placarla, anche un piatto di carote, ma nel momento in cui si parla di fame emotiva solo quel determinato alimento può placare momentaneamente il senso di fame;
La fame fisiologica non comporta una volta soddisfatta il senso di colpa, cosa che invece ritroviamo nella fame emotiva;
La fame emotiva deriva da un bisogno psicologico mentre la fame fisiologica è una necessità corporea;

Ma cosa possiamo fare in concreto nel momento in cui ci troviamo in una situazione di fame emotiva? Possiamo seguire due passi fondamentali.
Innanzitutto, dobbiamo riconoscere il sentimento che ci porta alla fame emotiva, dobbiamo iniziare a prendere coscienza della realtà e della situazione che si sta vivendo. Quindi è necessario e utile porsi determinate domande come ad esempio: cosa ci sta spingendo verso quel determinato cibo? A cosa non vogliamo pensare? Se ci rendiamo conto che il nostro ricorrere ai cibi confort è legata ad una situazione di ansia e stress, possiamo spostare queste nostre emozioni su un’altra attività che aiuta a portar fuori l’ansia come ad esempio la meditazione, lo yoga o qualunque altro tipo di sport; o se quello che ci muove è la noia potremmo andare a fare una passeggiata, vedere un film, ascoltare musica.
Il passo successivo ci porta a porci un’altra serie di domande: a cosa ricorriamo quando le emozioni prendono il sopravvento? Qual è il cibo che consumiamo non appena l’ansia o la noia ci assale? Quindi dobbiamo identificare e diventare consapevoli del cibo a cui si ricorre, quanto ne mangiamo, quando lo mangiamo e così riflettere anche su il come e il perché si mangia quel determinato cibo. Questo ci può aiutare ad identificare il nostro cibo-confort e cercare di modificare il nostro ricorso ad esso, una volta riconosciuto. E così una volta individuata la nostra modalità di ricorso al cibo e la tipologia di cibo a cui ricorriamo possiamo passare ad un ultimo passo: rompere definitivamente questo circolo vizioso che lega il cibo alla nostre emozioni. Questo sarà sicuramente la cosa più difficile da fare, ma non sempre la più complicata.
Bisogna tenere in considerazione che non è necessario eliminare del tutto il cibo confort dalla nostra vita, ma lo si può utilizzare in modo intelligente. Se le emozioni spingono più forti e sono sempre più impellenti possiamo comunque accedere alla nostra fonte di confort evitando di ingurgitare, ma piuttosto assaporando ciò che assumiamo in tutti i suoi aspetti: colori, odori e sapori.
Ricordandoci sempre che gratificarsi con consapevolezza e in modo equilibrato, soddisfacendo quindi un nostro bisogno, può essere utile a gestire in modo corretto quelle emozioni che altrimenti avremmo divorato!





Bibliografia

Abramson E., Emozioni e cibo. Positive Press, 2002, Verona.
Canetti L et al., Food and emotion. Behav Processess, 2002, Nov, 60 (2), 157-164.
Rolla E., Bossolasco M. V., Perdo peso. Un programma educativo cognitivo-comportamentale. Gribaudi, 2006. Milano.