venerdì 8 novembre 2013

Master biennale in mediazione familiare.


Per informazione potete contattare i numeri che trovate nel volantino o qui sul blog, o raggiungermi tramite posta elettronica: elviradoc@libero.it

Saranno previste forme di promozione per chi si iscrive entro fine Novembre e presenta una persona. Prenotate il vostro posto!

martedì 22 ottobre 2013

L'ora delle favole


Aspetto i vostri bambini a Villa Fabiano per divertirci insieme con le favole. Per informazioni contattate la struttura!

domenica 29 settembre 2013

L'ansia nemica nella musica:strategie psicologiche e musicoterapiche



Giorno 7 Ottobre 2013 alle ore 18.00 presso la Juliard music school si terrà il convegno "L'ansia nemica della musica: strategie psicologiche e musicoterapiche, per cantanti, musicisti e persone del settore. Vi aspettiamo

giovedì 19 settembre 2013

La paura del distacco: l’inserimento nella scuola dell’infanzia.

                   

È settembre e l’inserimento nella scuola dell’infanzia è il gradino che affronta in questo momento un bambino di circa 3 anni. Ma non è solo un passo in avanti nel percorso di crescita, in cui il bambino inizia ad assaporare cosa vuol dire la socializzazione vera e propria e l’indipendenza, ma segna per i genitori il momento in cui la famiglia si separa e cambia i suoi equilibri. L’ansia del genitore anche se nascosta viene colta dal bambino e potrebbe vivere l’inserimento nella scuola materna come qualcosa di negativo, che fa soffrire la persona a cui lui vuole più bene.

Ecco perché, ho pensato di cercare di dare una serie di consigli ai genitori che si ritroveranno a vivere l’inserimento a scuola, per renderla un’esperienza il più serena possibile.

  1. Avere fiducia nel proprio bambino: sono tanti i pensieri e le domande che passano nella mente delle madri: riuscirà a farsi capire? Riuscirà a mangiare da solo? Sarà in grado di andare in bagno? Sicuramente si! È questo il pensiero che deve predominare nella mente, bisogna aver fiducia nel proprio bambino.
  2. Ascolta i suoi racconti: ci si renderà conto di come riesce in tutto il proprio bambino ascoltandolo. Ascoltiamo i suoi racconti, le filastrocche che ha imparato, i nuovi giochi e soprattutto accogliamolo sempre con un sorriso. Si trasmetterà al bambino la sensazione che ci piace che fa tutte queste scoperte in asilo, incoraggiandolo ad andare il giorno dopo.
  3. Evita i paragoni con gli altri bambini: come dicevo poc’anzi l’ingresso nella scuola dell’infanzia per il bambino è un’esperienza del tutto nuova, ogni bambino ha i propri tempi per ambientarsi e iniziare la socializzazione. Riconosciamo in lui le sue caratteristiche positive di personalità senza porre l’accento in quello che ci sembra negativo, ponendo a paragone il bambino con i suoi compagni di asilo.
  4. Rendiamo tutto un’avventura: rendiamo i suoi racconti della giornata alla scuola materna come se fosse un’avventura sempre nuova da vivere ogni giorno perché ogni giorno sarà diversa.
  5. Aiutiamolo a comunicare le emozioni: nel momento in cui ci racconta la giornata chiediamo loro come si sentono: come ti senti oggi? Ti è piaciuto disegnare? Ti sei divertito?
  6. Piange e ora come faccio? È la domanda che si pone ogni genitore nel momento in cui lascia il proprio bambino. Partiamo dal presupposto che il pianto del bambino non è di per sé negativo. È un modo per esprimere il cambiamento, certo esprime un disagio, ma è normale opporsi alle situazioni nuove. Se piange mentre ve ne state andando abbassatevi guardateli negli occhi, rassicuratelo dicendo che vi vedrete alla fine dell’orario scolastico. E’ consigliabile farsi vedere contenti e pieni di entusiasmo per questa esperienza nuova, anche se dentro di noi non è proprio così. Dare fiducia al bambino significa essere certi che ce la può fare a superare questo momento difficile, e questa fiducia va soprattutto a suo vantaggio. Quando i genitori sono tranquilli e si fidano dell’insegnante anche il bambino si rilassa.
  7. Informatevi: quando accompagnate il vostro bambino informatevi su cosa avverrà durante l’orario scolastico potrebbe essere un modo per essere più tranquilli.

Provate a mettere in atto questi sei piccoli consigli per un inserimento sereno e non dimenticate che il vostro istinto di genitore rimane sempre l’arma vincente.



lunedì 1 luglio 2013

Apertura sportello di ascolto gratuito

Presso l'Associazione Serenamente donna e mamma è attivo lo sportello di ascolto gratuito per chi soffre di disturbi alimentari e i suoi familiare, per un consiglio, uno sfogo, un confronto vi aspetto e vi aspettiamo tutti i lunedi mattina dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e i giovedi pomeriggio dalle 15.30 alle 17.30 presso la sede dell'associazione sita in Via 1° Maggio n° 20, Città 2000, Cosenza. Vi lascio il volantino dello sportello e quello del centro diurno che aprirà a settembre per qualsiasi informazione ci trovate in associazione, potete contattarmi sul blog o sulla pagina facebook digitando associazione serenamente donna e mamma



domenica 16 giugno 2013

Perchè è importante vivere un allattamento sereno.

A cura delle dott.sse Elvira Orrico, Serianni Maria Francesca, Azzinnari Stefania




La nascita del proprio bambino porta nella vita di ciascuna donna una sorta di ambiguità, da una parte ci si sente piene di gioia, serenità è presente una grande voglia di godersi il proprio bambino mentre dal’altro possiamo trovare uno stato d’animo di sospensione, ovvero ci si sente su una bilancia in cui il raggiungimento dell’equilibrio psico-fisico risulta complicato e ardimentoso sia per gli alti e i bassi degli ormoni che perché dal punto di vista psicologico si sperimenta  una sorta di vuoto perché non si vive il bambino più dentro di sé ma ora è nato, è fuori, lo si tiene in braccio lo si vede nella carrozzina, ansie per non riuscire ad accudirlo bene, il sentirsi non all’altezza, i sensi di colpa per quel che si potrebbe o si potrà fare e non si riesce a fare contrapposto alla sensazione di toccare il cielo con un dito e la voglia di essere di aiuto e supporto a questo piccolo arrivato nel mondo alla ricerca di amore e sostentamento. Come possiamo ben comprendere uno dei momenti in cui tutto ciò viene a concentrarsi è quello dell’allattamento. In psicologia, negli anni e attraverso vari esperimenti con cuccioli e mamme di varie razze, si è giunti a comprendere come il legame che si crea tra la mamma che allatta, in modo naturale o artificiale, formi le basi per un buono sviluppo e la serenità del bambino. Ognuno di noi ha come bisogno essenziale il cibo ma senza il calore e l’affetto che circonda questo gesto, da solo non ci permetterebbe mai la vita. Partiamo dal presupposto che l’allattamento al seno non è, almeno inizialmente, una cosa semplice da mettere in atto, non solo al punto di vista pratico ma anche psicologico. I mille consigli ricevuti in qualità di “esperti” (mamme/suocere, amiche, parrucchiere, giornalaio, panettiere ecc ) che si improvvisano pediatri, ostetriche esperti del settore che ti “insegnano”, il più delle volte facendoti sentire una mamma incapace, quello che devi fare e  come farlo , i tentativi di attaccare il proprio bambino appena nato e la situazione psicofisica che si vive in quei giorni fanno sì che il tutto venga vissuto come una ricerca spasmodica nell'allattare a tutti i costi; mentre il momento intimo dell’allattamento dovrebbe essere vissuto in modo assolutamente tranquillo e sereno. È adesso che si viene a sviluppare quel legame di amore assoluto che accompagnerà il rapporto duale mamma- bambino, il linguaggio non verbale che si accompagna all'allattamento è unico e straordinario che solo loro due comprendono. Ed ecco che la mamma inizia a mettere il primo mattoncino che creerà il legame di attaccamento che accompagnerà il bambino in tutta la sua vita. Nel momento in cui la madre sperimenta delle piccole difficoltà nell'allattare, questo magico momento rischia, come abbiamo detto prima, di perdere l’accezione positiva che riveste, trasformandosi in un cesto che accoglie i sensi i colpa, l’impotenza, la frustrazione e la rabbia della stessa poiché viene vissuta come una sconfitta. L’allattamento con latte artificiale viene sempre più spesso vissuto dalla madre di conseguenza come qualcosa di negativo, un qualcosa che procurerà un perdita, una mancanza nel suo rapporto con il piccolo. In realtà, se nell’allattamento con latte artificiale vengono messe in pratica le stesse “metodiche” usate nell’allattamento al seno, come il contatto con la pelle della madre e le “regole” che caratterizzano il bonding questa modalità di allattare il proprio piccino non toglierà niente al rapporto tra madre e bambino, ma porterà alla stessa conclusione della suzione al seno. Prima di terminare il nostro articolo vogliamo sottolineare perché è importante tentare di mettere in pratica l’allattamento al seno sia per il bambino che per la madre.
                                                          
                                                               
Vantaggi per il bambino:
·         Il latte materno contiene tutto ciò di cui il tuo bambino ha bisogno: proteine, grassi, lattosio, vitamine, ferro, minerali, acqua ed enzimi nelle esatte quantità necessarie per una crescita e uno sviluppo ottimali.
·         I bambini allattati al seno sono più sani. Il latte materno contiene tutte le sostanze che prevengono la formazione di batteri nocivi nell'intestino, che potrebbero provocare infezioni gastrointestinali e diarrea.
·         I bambini allattati al seno contraggono meno infezioni alle orecchie, meno infezioni respiratorie e hanno un minor rischio di sviluppare allergie, tumori, diabete infantile e obesità.
·         In questi bambini, inoltre, il rischio di sindrome della morte improvvisa del lattante (SIDS) è estremamente ridotto.
·         Allattare al seno un bambino prematuro riduce il rischio di sviluppare l'enterocolite necrotizzante (NEC).
·         Il latte materno è puro e privo di batteri e ha proprietà anti-infettive.
·         Il latte materno ha una giusta temperatura e non ha bisogno di alcuna preparazione. È direttamente disponibile per le necessità del tuo bambino.
·         Nel corso della loro vita, i bambini allattati al seno sono meno soggetti a sviluppare diabete, malattie cardiache, eczema, asma e altri problemi allergici.
·         Allattare un bambino al seno ne consente un migliore sviluppo cerebrale. Le ricerche dimostrano che nei bambini allattati al seno sono riscontrabili un migliore sviluppo della vista e una migliore acuità visiva.
·         Allattare al seno significa qualcosa in più che nutrire. Significa migliorare il legame emotivo tra il bambino e la mamma e donare calore, amore e affetto.
                                     

Vantaggi per la mamma:
·         L'allattamento al seno riduce il sanguinamento post-parto e il rischio di anemia.
·         Allattare il bambino aiuta la mamma a recuperare il suo peso forma.
·         Allattare al seno ritarda il ritorno della fertilità.
·         L'allattamento al seno ha un effetto protettivo contro diversi tipi di cancro, quali il cancro al seno e quello alle ovaie, e aiuta a prevenire l'osteoporosi.
·         Le madri che allattano al seno sperimentano di frequente il rafforzamento della propria autostima e creano relazioni migliori con il proprio bambino.
·         Il latte materno è immediatamente disponibile e permette di risparmiare energia, tempo e denaro.
·         I bambini allattati al seno sono più sani

Vogliamo concludere questo nostro articolo non con consigli o rimedi e metodi ma lasciando il resto dello spazio alle parole delle mamme di face book che alla domanda:”Usa un aggettivo su come immaginavi potesse essere l’allattamento e come è stato viverlo?” Hanno risposto: “romantico prima, meraviglioso dopo (nonostante le difficoltà!)”; “prima del parto meraviglioso ma impegnativo, dopo il parto … beh non ci sono parole per descrivere l’unicità delle emozioni che si provano!!!!!!!!!”; “prima intimo dopo sofferto, sfuggente. Non ho avuto una bella esperienza per una serie di fattori nati dal primo giorno. È una mancanza che proverò sempre e un grande senso di colpa per non essere stata in grado di mettere il rapporto con mia figlia al primo posto  senza lasciarmi influenzare dalle situazioni esterne. Sicuramente sarà mancato anche a lei un rapporto coinvolgente e complice con me nei primi mesi, ma ho l’illusione e la speranza che non le mancherà mai la sicurezza del mio amore e la comprensione nel pensare che anche la mamma deve imparare ad essere mamma. Tante cose vengono naturalmente, altre si imparano … questo è per me un argomento delicato e molto sofferto. Per quel poco tempo in cui ho allattato xxxx posso solo dire che la natura è miracolosa e la sensazione di nutrire materialmente e sentimentalmente una parte di te è straordinario!”; “Prima neutro, dopo potente, riferito alla forza di mio figlio di succhiare”; “prima OVVVIO dopo PROBLEMATICO (causa mancata assistenza in ospedale … per fortuna mi sono incaponita e son riuscita a salvarlo!)”; “ prima naturale dopo pratico”; “prima impresa! Poi naturale”; “ prima importante poi fondamentale”; “prima scontato dopo meravigliosamente difficile”; “prima bellissimo e importante dopo fantastico ed emozionante”; “prima del parto magico dopo il parto combattuto e vincente!”;  “prima intimo poi meraviglioso”; “prima facile dopo intimo”; “prima preoccupante dopo meraviglioso”; “ necessario prima appagante poi”; “ doveroso, totalizzante”; “naturale prima insostituibile poi”; “importante prima fantastico dopo”; “ imbarazzante, indispensabile”; “prima doveroso dopo meraviglioso”; “per il primo parto curiosità poi disappunto. Per il secondo parto informati si ma e agguerrita … pare che il secondo all’allattamento sia riuscito a dispetto di tutti quelli che prevedevano carestia e latte poco nutriente”; “sul primo figlio vi potrei elencare tante di quelle cose negative da farne un libro! Tanto è vero che ho abbandonato l’allattamento materno subito mi sentivo inadeguata, frustrata, stanca, avevo sensi di colpa, non mi sentivo una buona madre”; “prima straziante e doloroso dopo magico”; “prima tenero, poi doloroso fino alle lacrime … ora tenero”; “prima me lo aspettavo come qualcosa di tenero dopo sono stata strafelice di  dire che non solo è tenerissimo ma non c’è cosa più bella al mondo di poter nutrire il proprio figlio sensazioni uniche”; “prima auspicio dopo unisono”; “prima del parto nemmeno mi ponevo il problema direi indifferente, dopo il parto: indispensabile!”; “prima scontato e irrinunciabile dopo doloroso e … irrinunciabile!!!”; “prima pensavo all’allattamento come un dono poi è stata complicità, intesa assoluta”; “ prima nutrimento dopo amore totalizzante”; “prima fortuna di riuscirci dopo amore puro e rivalutazione di me stessa”; “prima incerto dopo sensazionale!”; “prima ovvio dopo totalizzante”; “del primo figlio stupendo e poi stancante (nessuna informazione) seconda figlia agguerrita e dopo favoloso”; “prima dubbio (ero una di quelle che sperava di avere latte) dopo complice”; “faticoso e meraviglioso”.


venerdì 31 maggio 2013

Quando il corpo perfetto diventa un ossessione: la "Vigoressia".

 dott.ssa Isabella Vommaro (nutrizionista), dott.ssa Elvira Orrico (psicologa).


Un comportamento errato verso il cibo, un controllo eccessivo del peso corporeo prolungato nel tempo, danneggia in modo notevole sia la salute che la funzione psichica e sociale, e può essere definito come un disturbo alimentare generato dalla psiche e che coinvolge facilmente il corpo.
Il termine disturbo del comportamento alimentare è oramai argomento di interesse sociale. Il disturbo alimentare deriva da una distorta immagine di se, con un estremo disagio verso il proprio corpo e con una difficoltà nelle relazioni affettive.
Il disturbo dell’immagine corporea si manifesta con una esasperazione estrema dell’ alimentazione e la difficoltà a porsi in contatto con il mondo esterno, la mancanza di considerazione per se stessi e del proprio mondo personale, la sfiducia, fino ad arrivare alla denigrazione del proprio corpo e alla totale insoddisfazione per la propria forma.
E tali tratti appena elencati sono tipici di chi arriva ad avere un approccio con il cibo problematico e disturbato. Nota anche come anoressia reverse, si riscontra un modello di comportamento verso l’alimentazione e l’esercizio fisico ossessivo, molto simile a quelli del DCA, ma rivolto in questo caso non tanto alla perdita di peso corporeo, bensì all’aumento e definizione della massa muscolare, associati alla riduzione quanto più possibile del grasso corporeo e al miglioramento della forma.
In particolar modo, gli uomini affetti da questo disturbo pensano di avere dimensioni corporee troppo piccole, spesso presentano altre caratteristiche psicologiche a rischio per disturbi mentali come ad esempio disturbo dell’umore, depressione, ansia, tendenza all’isolamento sociale, elevati livelli di perfezionismo, narcisismo e aggressività, scarsa autostima e infine disturbi del comportamento ossessivo-compulsivo.
I soggetti affetti da anoressia reverse credono di essere piccoli e deboli, nonostante l’evidenza mostri che in realtà sono grossi e ben dotati, insoddisfatti del loro aspetto fisico sempre protesi al raggiungimento del loro ideale di immagine corporea, spesso sono accaniti frequentatori di palestre, modificano il loro comportamento sociale, trascurano le amicizie, evitano di mostrare in pubblico il loro corpo, si allenano intensamente anche se malati o infortunati , rinunciano al lavoro pur di non saltare la seduta in palestra o modificare il loro programma di allenamento, adottando diete bizzarre iperproteiche e ricche di integratori di ogni genere.
Il forte desiderio, diffuso anche tra i body builder, di controllare il proprio metabolismo attraverso la dieta e l’esercizio fisico, è simile alla necessità di controllo che si riscontra tra i pazienti affetti da anoressia nervosa. A partire dall’osservazione delle modificazioni corporee assunte dal famigerato BIG JYM, fu Harrison Pope, a condurre le prime ricerche sull’argomento.
Il primo “bambolotto”, del lontano 1964, era, infatti, morfologicamente simile ad un uomo di media corporatura, né troppo magro, né ipertrofico. Con l’avvento del Business Fitness, però, mentre Barbie dimagriva sempre di più fino ad assumere le sembianze attuali, con bacino di diametro quasi inferiore alla testa, il suo compagno cresceva in muscolatura, assomigliando progressivamente al classico body builder.
Ecco perché a partire dalla fine degli anni ’90 in America, nel momento in cui si rilevava un aumento di questa patologia in ragazzi in crescita dovuto ai modelli di uomo vincente offerti dai giocattoli e dalla pubblicità, sono stati modificate le forme corporee degli action movie non più con busto con una forma fortemente accentuata di triangolo rovesciato, ma con un equilibrio tra parte superiore e parte inferiore del loro corpo.
Questo tipo di alterazione della percezione della propria immagine corporea, la ritroviamo nella sintomatologia nota come dismorfia muscolare (DM) , bigoressia o vigoressia.
Le persone colpite sono donne e uomini oltre i trent’anni, ossessionati dal proprio corpo e intenzionati a fare tutto ciò che è possibile per aumentare la massa muscolare. Chi ne soffre in realtà cerca di combattere un senso di incertezza sull’unico ambito in cui può intervenite ” l’aspetto fisico”. Dal punto di vista psicologico la bigoressia (ovvero fame di grossezza) fa sì che la ricerca spasmodica del proprio corpo come asciutto e muscoloso viene accompagnata da una consequenziale insoddisfazione cronica per quello che è il proprio aspetto fisico, accompagnato da un’ossessiva paura di perdere all’improvviso gli obiettivi raggiunti nella forma fisica.
Ecco perché il bigoressico passa la maggior parte del tempo a cercare di mantenere quel tono muscolare perfetto raggiunto con anni di sacrifici e rinunce. Accanto ad una visione del proprio corpo deformata riscontriamo anche un’alterazione dello schema cognitivo.
La ricerca ossessiva della perfezione, denota un progressivo distacco della realtà, e da tutti è percepito solo essere esclusivamente in funzione del raggiungimento di un fisico perfetto.
Insoddisfazione, ansia e perdita di autostima (derivati dalla convinzione di essere sempre poco muscolosi) spingono i bigoressici ad allenarsi in continuazione con esercizi di potenziamento muscolare a lungo nell’intento di aumentare la massa muscolare ed abolire quella grassa, a seguire diete squilibrate (alimentazione iperproteica) utilizzo di integratori e continuo controllo del peso e dei singoli muscoli e parti del corpo come pure ad assumere ormoni androgeni, farmaci anabolizzanti e sostanze ergogeniche.
L’aspetto fisico diventa un ossessione non è importante sentirsi bene ma vedersi bene. Questi comportamenti auto-punitivi, però non portano a nessun miglioramento al loro corpo ma in realtà portano ad uno stato di sovra-allenamento, con tutte le conseguente psico-fisiche che ciò comporta, e di “auto isolamento sociale”.
Dalla colazione alla cena, l’uscita con gli amici, il piacere di bere qualcosa insieme in modo rilassato, tutto ciò è considerato all’interno dell’opportunità o meno di essere fatto nel rispetto del loro programma di allenamento fisico o alimentare. Studiarsi allo specchio è una della attività preferite da queste persone nel tentativo di gratificarsi per il risultato raggiunto, ma guardandosi molto bene troveranno sicuramente sempre il centimetro ancora di troppo, sicuramente da eliminare o il muscolo non abbastanza tonico.
Allo specchio chi  ne soffre, in ge nere, non se ne rende neppure conto, ma passa molto tempo a studiarsi, gonfiai pettorali e i bici piti, controlla il volume delle cosce e la tonicità degli addominali, e anche se il suo corpo è atleti co e in forma ed è sotto gli occhi di tutti, il risultato di questo esa me è sempre lo stesso: l’immagine che lo specchio gli rimanda lo delude.
La dieta “salu tare” del vigoressico va oltre di quello di uno sportivo. Prova un po’ di tutto: frullati protei ci, proteine estratte dal latte, maltodestrine, fruttosio, destrosio, cioè zuccheri utili per reggere gli sforzi dell’allenamento. Può eliminare e mangiare solo verdure crude e, la mattina, fare colazione con gli albumi d’uovo e con sumarne altri dopo l’allenamento, tut te abitudini che dovrebbero contribui re ad aumentare il volume dei suoi muscoli.
Consumare proteine in polvere al posto del la carne, esagerare con gli  inte gratori prima e dopo l’allena mento, questo è l’inizio di un percorso che può diventare pe ricoloso, e che di sportivo ha proprio poco! L’allarme si fa più serio se lui va alla ricerca di qualcosa che dia al corpo l’energia sufficiente per far esplode re anche il più insignificante dei mu scoli.
Questa ricerca ossessiva della perfezione denota sempre più una mancanza di senso della realtà, non riescono più a trovare il sen so del limite, della normalità.
Le conseguenze sono diverse: alterazione del sonno e della fame, patologie cardiache e renali, isolamento sociale, problemi alle articolazioni e ai muscoli, forte dispendio economico, seri problemi per quanto riguarda i rapporti interpersonali, elevati stati di ansia.
Se accade, più che iniziare a preoccuparsi, è ora di affrontare il problema e le sue conseguenze sulla salute. La convinzione che essi hanno di essere troppo gracili, nonostante l’evidenza che tutti i familiari ed amici notano, può assomigliare ad un delirio.
Si potrebbe pensare che la bigoressia sia un disturbo prettamente maschile (circa il 10% degli uomini che praticano in modo agonistico il body building ne soffrono), in realtà in questi ultimi anni anche le donne che frequentano la palestra in modo agonistico stanno sviluppando questa patologia.
Per concludere osserviamo elencati i Segni e sintomi che possono portare a vigoressia o del complesso di adone:
1. Immagine di sé distorta e guardarsi spesso allo specchio
2. Mancanza ad eventi sociali, saltare il lavoro e cancellare i piani con la famiglia / amici per l’allenamento
3. Evitano situazioni in cui il proprio corpo potrebbe essere esposto
4. Non sono soddisfatti della massa muscolare del proprio corpo
5. Il mantenimento di una dieta rigorosa ad alto contenuto di proteine e pochi grassi
6. Utilizzo di una quantità eccessiva di integratori alimentari
7. Abuso di steroidi, chirurgia plastica inutile
8. Allenarsi nonostante stanchezza
9. Mantenimento di metodi di allenamento estremi
Un ruolo importante è gioca to anche dai modelli culturali di bellezza e prestazione fisica nei contesti sportivi, dalle pressioni di compagnie, allenatori, com petizioni. Se, poi, alla base, ci so no un senso di inadeguatezza, la paura di fallire ma anche la bas sa statura, ci si convince di poter risolvere le proprie fragilità co struendosi una fisicità imponen te, in palestra, ma anche a tavola.
E’ un gioco altamente pericoloso che dà l’illusione che un giorno potremmo essere felici col nostro nuovo e perfetto corpo.
La cosa difficile può essere riuscire a far comprendere a chi soffre di vigoressia o bigoressia che questi eccessi sono il sintomo di una profonda insicurezza.
In genere non riconoscono il loro disturbo in quanto tale, e non si rivolgono a uno specialista affinché li possa aiutare. Può essere di grande aiuto un percorso di psicoterapia, ma serve anche l’intervento del medico o di un equipe con diverse figure professionali che possano cooperare per il riequilibrio corpo-mente del paziente.

Ritroviamo l'equilibrio!

Giorno 11 Giugno 2013 alle ora 16.30 vi aspetto presso l'Associazione Serenamente donna e mamma per questo importante incontro a tema sulla gestione del peso corporeo e dell'equilibrio psicofisico in situazione di dieta o di ritrovato equilibrio corporeo.
Prenotate il vostro posto.





venerdì 26 aprile 2013

Nuovo incontro fame nervosa

E' in programma un nuovo incontro sulla gestione della fame nervosa, la dott.ssa Elvira Orrico e la dott.ssa Lorenza Siciliano vi aspettano presso l'associazione "Serenamente donna e mamma"

venerdì 5 aprile 2013

La gravidanza: la gestazione mentale dell’uomo.



Da diversi anni viene posta grande attenzione agli aspetti psicologico-emotivi presenti nella donna in gravidanza e nel puerperio; ma non altrettanta cura veniva rivolta ai loro compagni, i padri, che, anche se in modo diverso, attraversano anche loro una sorta di gestazione. Infatti l'uomo, durante i nove mesi di gravidanza, si può trovare in una sorta di "limbo", perché a differenza della donna lui non si trova a vivere i cambiamenti fisici ed emotivi della gravidanza sul suo corpo, che potrebbero aiutarlo a prepararsi alla genitorialità e al suo nuovo ruolo. 

Il fatto di non poter vivere sulla propria pelle la gestazione non sempre rende automatico nell'uomo il crearsi di un legame affettivo profondo con il proprio bambino, come avviene con più facilità (ma comunque non sempre) per la donna. Il poter assistere alla nascita del proprio figlio è un momento fondamentale per il neopadre, è il primo vero contatto reale con questo bambino immaginato, con cui tutto è ancora da costruire. Nell'uomo infatti, agiscono forze aventi tendenze dicotomiche, da un lato, compare lo sviluppo delle dinamiche che consentono l'assunzione del ruolo paterno con sentimenti che agevolano tale processo, dall'altra forze conflittuali che fanno emergere per lo più i meccanismi di difesa, paure e resistenze ad assumere tale funzione. 

Anche i due stessi termini padre e paternità rivestono significati diversi. Proviamo a vederlo insieme; mentre il padre è quell'uomo che, insieme a una donna, procrea un figlio oppure quell'uomo che, facendo richiesta insieme alla propria consorte, ottiene dalla legge l'affido e/o l'adozione di un minore, la paternità è un processo inter e intra-soggettivo che si costruisce prima sul rapporto intrapsichico del padre nei confronti del figlio, poi nella relazione interpersonale che egli instaura con la prole. Di conseguenza possiamo ben comprendere come sia assolutamente diversi i tempi di realizzazione e sviluppo della figura genitoriale per l'uomo e per la donna, e non sempre nell'uomo e nella coppia viene vissuto con serenità il fatto che madre e padre abbiano bisogno di percorsi e tempi differenti per creare un legame affettivo nella propria testa e nel proprio cuore con il bambino che sta per nascere. 

A volte le donne si lamentano del fatto che il loro partner non sembra particolarmente "preso" dalla loro gravidanza, che non parla spesso con la pancia né la accarezza. Ma non si tratta né di indifferenza né di superficialità. Sono solo tempi e percorsi diversi. La donna che vive nel proprio corpo ogni giorno per nove mesi i cambiamenti e gli sviluppi del suo bambino è normale e naturale sviluppare un legame affettivo profondo. Lo sviluppo del senso di paternità arriverà più tardi ma con la stessa naturalezza con cui la donna ha sviluppato il suo senso di maternità. 

Non dobbiamo sottovalutare il fatto che l’uomo, così come la sua compagna di vita, si crei dei problemi sul suo futuro ruolo di padre. Così come la futura mamma anche il futuro papà , il più delle volte, si chiede se sarà un buon padre, osserva la sua compagna parlare del loro bambino con un'intensità ed un'emozione che può non riconoscersi e chiedersi cosa ci sia di sbagliato in lui, perché non ami suo figlio come lo ama lei. Sono domande legittime, sono il frutto di un processo che percorre strade differenti in tempi differenti rispetto alla donna. E questo può essere causa nell'uomo di un senso di esclusione dalla diade materno-infantile e della futura comprensione del comportamento materno nei confronti del bambino arrivato in famiglia. 

Inoltre l’attesa di un figlio porta l’uomo a ripensare al suo rapporto con il proprio padre in un viaggio a ritroso, non sempre facile, tra sentimenti e episodi della giovinezza e dell’infanzia. Anche la donna riconsidera il proprio rapporto con la madre e in base a questo può decidere di seguirne il modello o di prenderne le distanze. Ma la differenza, nel caso dell’uomo è che, per quanto il rapporto con il padre sia stato felice, difficilmente potrà “attingere” alla propria esperienza, poiché i papà di oggi sono profondamente diversi da quelli delle generazioni precedenti. Un tempo il figlio rappresentava la continuazione della stirpe e il padre l’autorità. Oggi questi ruoli sono superati e gli uomini faticano a trovare modelli di riferimento cui rifarsi. Immaginare il padre che saranno diventa quindi più difficile. 

I nuovi padri sono chiamati a un arduo compito: “inventare” un nuovo modello  che non ha precedenti nella storia. È la prima volta, infatti, che l’uomo condivide l’esperienza della gravidanza e partecipa al parto e alle cure del bebè, entrando in un mondo che, fino a pochi decenni fa, era considerato di esclusiva competenza femminile. Ma i nove mesi sono un tempo privilegiato anche per riflettere su se stessi, per fare il punto della situazione, riconsiderando sogni, progetti e priorità. 

Durante la gravidanza l’uomo non si crea solo delle domande e delle problematiche riguardo al suo ruolo di futuro padre, ma in modo assolutamente naturale la coppia si può trovare a vivere delle difficoltà anche dal punto di vista sessuale. Non di rado l'uomo ha difficoltà a vivere con la serenità di sempre i rapporti sessuali con la compagna in gravidanza. Può sentire più o meno consapevolmente di violare quel misterioso e magico luogo dove suo figlio sta crescendo; può temere, nonostante le rassicurazioni dei medici, di fare del male al piccolo o di provocare contrazioni pericolose per la compagna. Altre volte, soprattutto quando la gravidanza è in fase avanzata, i cambiamenti del corpo della compagna possono incidere sul senso di attrazione sessuale che prova l'uomo. Può cambiare, nella fantasia maschile, l'immagine erotica della propria donna, da "oggetto del desiderio" sessuale, a figura assolutamente materna, andando a modificare transitoriamente l'istinto sessuale maschile. 

Il dialogo all'interno della coppia diventa allora fondamentale, per far sì che la donna comprenda ed accolga le difficoltà del proprio compagno senza suscitare in lui inutili sensi di colpa e senza sentirsi rifiutata sessualmente. La coppia, durante la gravidanza e nei mesi successivi al parto, può incontrare significativi, e generalmente transitori cambiamenti nelle proprie abitudini e stili di relazione; profondo rispetto, comprensione e condivisione sono fondamentali perché essa attraversi questo periodo in maniera costruttiva, sostenendosi a vicenda e trovando giorno dopo giorno un nuovo equilibrio per affrontare al meglio la grande avventura del diventare genitori. 

La vicinanza e la condivisione tra futuri genitori è importante per la futura mamma che, grazie alla presenza del compagno, vive con maggior serenità la gravidanza, ma è un’opportunità preziosa anche per l’uomo che, piano piano, impara a fare conoscenza con il proprio piccino. In questo sono di grande aiuto i primi movimenti del bambino che il futuro papà può sentire posando la mano sul pancione. E ben presto il bimbo imparerà a riconoscere la voce paterna e a interagire con lui, rispondendo al saluto e alle carezze del papà con una serie di calcetti e di capriole.
Anche i controlli ecografici possono facilitare la “conoscenza” tra padre e figlio. Vedere il proprio piccino sul monitor è un’opportunità per crearsi uno scenario mentale più veritiero.

sabato 30 marzo 2013

Perché abbiamo paura dello psicologo?



Lo psicologo è una figura professionale che fa paura. La maggior parte delle persone che vengono nel mio studio, dopo le presentazioni iniziali, si rivolgono a me dicendo :- ahhhh!!Dottò io mica sono pazza o malata?!?!?! -.Questo perché lo psicologo si porta dietro di sé il retaggio che curi i pazzi! E questo fa sì che il più delle volte si arriva nello studio dello psicologo dopo averci pensato e ripensato, dopo che si è riusciti a tenere tutto nascosto a chi ci circonda quasi come se dovessimo vergognarci della nostra richiesta di aiuto. Ma se pensiamo al perché ci si rivolge allo psicologo, tutto questo non dovrebbe crearsi nel pensiero dell’uomo, poiché non c’è niente di male nel chiedere aiuto. 


Proviamo a pensare alla vita che conduciamo tutti i giorni, allo stress, all’ansia, al tram tram cui siamo soggetti. E a chi non è mai capitato di trovarsi in situazioni di crisi, di forte disagio o di grande cambiamento come la nascita di un figlio, la morte di un parente stretto, il matrimonio, un licenziamento? E quante volte ci siamo fermati a riflettere sul fatto che non riuscivamo ad uscire dalle suddette situazioni? Non trovavamo gli strumenti … e così abbiamo ceduto all’ansia, alla depressione, gli attacchi di panico. È in queste situazioni, prima di cedere, che lo psicologo può aiutare! 

Infatti, lo psicologo è il professionista che capisce il disagio che si sta attraversando, aiuta a trovare la risposta ai perché che ci affliggono in quel momento e così normalizzare, tranquillizzare riguardo a ciò che si sta’ vivendo. 

I malesseri psicologici sono spaventosi: come si avverte un sintomo ci si spaventa; la prima volta è un trauma che si cerca immediatamente di dimenticare.
Ma poi capita che si ripresenti una seconda volta, una terza e poi ancora.
E ogni volta la persona fa di tutto per arginare e contenere i "danni" dei sintomi. Non ne parla per vergogna e ci si difende sempre più nell'attesa angosciosa che si ripresenti il sintomo. 

Alla fine però, il sintomo diventa parte della vita della persona, diventando cronico, sepolto sotto tutto ciò che una persona ha fatto per "nasconderlo", "non pensarci", "metterlo da parte". 

Con l'aiuto dello psicologo la persona impara a capire che la mente umana mette in atto le più svariate strategie per fronteggiare le situazioni difficili e/o dolorose: alcuni funzionali, altre no. E quando si presentano le strategie non funzionali, perchè limitanti la vita di una persona, l'aiuto di un professionista è è fondamentale per imparare nuove strategie per fronteggiare i problemi della vita. 

Questo non vuol dire che la persona sia sbagliata o che il suo modo di vivere sia sbagliato: significa che un problema richiede una soluzione che una persona da sola non riesce a trovare. Le strategie che mettiamo in atto di fronte ai problemi, alle sfide che la vita ci pone le impariamo sin dall'infanzia e si consolidano nel tempo, attraverso l'esperienza e la maturità. Alcune strategie ci saranno utili per tutta la vita e in tutte le situazioni. Altre risulteranno inefficaci e questo non perchè ci manchi qualcosa e quindi siamo sbagliati ma perchè in quella situazione non ci siamo mai trovati prima, quindi non abbiamo gli strumenti adatti per fronteggiarla! 

L’incontro con lo psicologo permette all’altro di migliorare la qualità della propria vita, prima che questa sia realmente compromessa. Anzi, una breve frequentazione con lo psicologo è auspicabile all’interno del progetto di crescita personale, per migliorare la propria efficacia come genitori, uomini, donne, lavoratori. 

L’obiettivo è pur sempre quello di vivere una vita appagante e, se vogliamo usare un termine romantico, felice. E se dovesse capitare che, costruire la propria soddisfatta felicità, significhi incontrare un professionista, impariamo a non aver paura di prendersi cura di noi. 



Oltre alle varie situazioni di malessere psicologico, l'aiuto dello psicologo è utile per: 
  • migliorare se stessi e la qualità della propria vita: sintomo di "salute mentale" 
  • risolvere problemi, chiarire se stessi, imparare ad essere più sereni 
  • ottenere un aiuto obiettivo perchè conosce le tecniche per controllare le situazioni e per analizzarle 
  • interpretare in modo più razionale le situazioni della vita 
  • parlare liberamente, esprimendo in serenità i propri pensieri, emozioni e paure, contando sul supporto empatico di un professionista che non giudica e di cui ci si può fidare, essendo vincolato al segreto professionale (esteso anche ai familiari). 

Vorrei terminare l'articolo di oggi parlando delle 4 frasi più frequenti che mi sento ripetere nel mio studio: 

1. Io non ho bisogno dello psicologo perché sono abbastanza intelligente per sbrigarmela da solo!: Tutti noi abbiamo i nostri “punti ciechi”, e sicuramente l'intelligenza o meno non ha nulla a che fare con il disagio psicologico. Un bravo psicologo non dice cosa fare o come vivere la propria vita. Ma darà una prospettiva esperta esterna e consentirà di scoprire cose di se stessi in modo da poter avere un quadro più chiaro del proprio comportamento e del modo di relazionarsi con sé e con gli altri e, di conseguenza, fare scelte migliori. 

2. Si va dallo psicologo solo se si è pazzi!: Non è necessario avere una diagnosi con un problema di salute mentale per “andare dallo psicologo”. La maggior parte delle persone che seguono un percorso di sostegno psicologico cercano aiuto per le preoccupazioni di tutti i giorni: problemi relazionali, stress da lavoro o, per esempio, dubbi. Altri si rivolgono allo psicologo nei momenti difficili, come per affrontare un lutto o una separazione. 

3. Gira gira tutti gli psicologi vogliono parlar dei genitori!: In realtà questo è uno dei miti più duri a morire!E’ dagli anni'50 che non si centra più il lavoro sul complesso di Edipo o Elettra, sulle colpe dei propri genitori, ecc.. Restare nel presente e nel disagio “qui ed ora” , con uno sguardo alla propria storia familiare, è la modalità con cui lavorano buona parte degli psicologi. 

4. Si va dallo psicologo per sfogarsi, quindi qui vengono solo i piagnucoloni: Molti erroneamente credono che si va dallo psicologo per sfogarsi con qualcuno, come un amico. Allora perchè non andare da un amico e risparmiare tempo e denaro? Purtroppo il lavoro che il paziente fa nel suo percorso di sostegno psicologico è molto duro e faticoso. Una lamentela fine a se stessa, con il tempo non porterebbe da nessuna parte. Il miglioramento viene proprio da uno sguardo più obiettivo su se stessi e la propria vita, e attraverso l' assumersi la responsabilità delle proprie azioni e del proprio disagio. Lo psicologo da un aiuto concreto, ma è il paziente, alla fine, che deve fare il lavoro più duro.

domenica 17 marzo 2013

Incontro a tema sulla fame emotiva.

Vi aspetto giorno 21 marzo 2013 presso l'Associazione donna e mamma sita in via 1° Maggio n° 20 a Cosenza, prenotate il vostro posto, ne parleremo insieme.


venerdì 15 febbraio 2013

Gruppo on line di gestione del peso corporeo e della fame emotiva





Sto organizzando on line un gruppo di gestione del peso corporeo e della fame emotiva, il tutto naturalmente gratuito.
L'impegno sarà di una volta ogni quindici giorni per un'oretta circa e ci organizzeremo al meglio secondo gli impegni di tutti/e. 
L'organizzazione del gruppo avverrà su fb, sulla pagina: http:www.facebook.com/Psicologiagestionedelpesofamemotiva, in forma assolutamente privata.
Farò in modo che siate seguite/i così come vengono seguiti/e tutti coloro che seguono il gruppo in studio. 
Il tutto è ancora in organizzazione ma intanto raccolgo le adesioni. 
Se siete interessate o volete altre informazioni contattatemi in privato con un messaggio su fb o tramite mail a: elviradoc@libero.it.
Vi aspetto!!








giovedì 7 febbraio 2013

Donne che amano troppo di Robin Norwood




    
                                                         
                                                                                                          "Quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto
perché siamo dominate dalla paura: paura di restare sole,
paura di non essere degne d'amore, paura di essere abbandonate o ignorate...
E amare con paura significa soprattutto attaccarsi morbosamente
a qualcuno che riteniamo indispensabile per la nostra esistenza,
amare con paura comporta la messa in atto di tutta una serie
di meccanismi di controllo per tenere l'altro
nell'area del proprio possesso..."


La dipendenza affettiva è da sempre oggetto di discussione sia quando si parla di violenza sulle donne sia quando si parla nelle notizie di cronaca di "femminicidio". Proprio per questo volevo parlare di questo libro perché credo che spieghi molto bene attraverso la storia di queste donne questi vari meccanismi.
Il libro è stato scritto negli anni ’70 dalla psicologa americana che fece da apripista alle discussioni sulle dipendenze affettive. Il titolo del libro è esplicativo di ciò di cui parla l’autrice-psicologa e una riflessione ha mosso i miei pensieri quando sono giunta all'ultima pagina di questo libro, nella loro vita sentimentale le donne protagoniste amano, amano troppo, amano totalmente ma non arrivano ad amare se stesse. 
Anche quando si rendono conto che il loro partner non è quello giusto, quello che fa per loro, non riescono a lasciarlo.
Il libro ci fa riflettere sul fatto che quando in un rapporto amare vuol dire soffrire e star male stiamo amando troppo. Troppo rispetto alla situazione, troppo rispetto alla persona, troppo rispetto a noi!

Il percorso che la psicologa ci mostra nelle singole situazioni in cui le donne che lei segue si vengono a trovare ci fa comprendere che anche in una situazione di limite si può ritrovare la strada, ricevendo il giusto supporto si riesce ad uscire da una situazione di amore sbagliato. Ritrovare l’amore e la stima di sé, non avere più la paura dell’abbandono.


Questo libro può essere da supporto a tutte le donne che amano troppo per comprendere e capire i loro comportamenti giusti e sbagliati e a tutti gli uomini che amano una donna per capire come e perché a volte agiamo in un determinato modo.

mercoledì 6 febbraio 2013

Viversi nella coppia

A marzo vi aspetto per parlare insieme di coppia, per avere informazioni  o prenotare il tuo posto puoi contattarmi sul blog o tramite mail: elviradoc@libero.it
Vi aspetto!!



venerdì 1 febbraio 2013

Due nuovi appuntamenti per il nostro ben-essere.

In collaborazione con l'associazione serenamente donna e mamma di Cosenza nel mese di Febbraio 2013 sono in partenza due incontri a tema per il nostro benessere psicofisico. 
Vi aspetto!!






giovedì 24 gennaio 2013

Caratteristiche del rapporto medico- paziente.

Oggi vi propongo un estratto da una tesi di una collega, la dott.ssa Teresa Macrì, che sta prendendo la specialistica in psicologia clinica e della salute, è davvero molto interessante soprattutto perchè guarda il tutto anche dal punto di vista del nostro codice deontologico.



«Essere un uomo significa…avere la capacità di sopportare
 un dolore quando questo capita in sorte. » 
Viktor E. Frankl

ETICA PROFESSIONALE

Lo psicologo, o un qualsiasi medico in generale, vanno incontro quotidianamente ad un carico di speranze e di angosce, derivanti dalla disperazione dei malati e delle loro famiglie, ai quali cercano di avvicinarsi con solidarietà umana e sensibilità. Importante è la competenza e l’atteggiamento non solo del clinico, ma anche dei diversi operatori  sanitari che operano in un dato contesto. Nella cura del malato, bisogna dare massima importanza alla spiritualità, intesa nel senso di attenzione a quelle che sono le attese e le domande più profonde del paziente. Vivere il dolore degli altri, del paziente significa prendere coscienza della sua struttura fisica e psicologica. Spesso nel distinguere la malattia dalla sofferenza, si corre il rischio di concentrarsi solo ed esclusivamente sul disturbo, sia esso fisico o psichico, trascurando il dolore intimo del paziente. Proprio in questo consiste la differenza tra curare la malattia e curare il malato. 
 L’angoscia del malato diventa “comportamento comunicativo”, ed è necessario soprattutto nel lavoro dello psicologo, sapere “in che modo” e “a chi è diretta” tale comunicazione di sofferenza da parte del paziente, al fine di mettere in campo la specifica tipologia di intervento. Il malato, spesso, si chiude in se stesso, isolandosi in un profondo silenzio, in una solitudine dal risvolto non solo psicologico, ma  anche relazionale. Egli si deve sentirsi accompagnato da persone che si prendono cura delle sue emozioni, del suo spirito e al tempo stesso del suo corpo, affinchè possa affrontare serenamente, secondo i suoi modi e desideri, la sua esperienza di malattia. L’uomo non ha questa capacità di soffrire, nessuno gliel'ha posta nella culla, la capacità di soffrire invece l’uomo: se la deve soffrire! (V.Frankl,). Nel suo phatos, il malato ha bisogno di essere ascoltato, ha bisogno di atteggiamenti di valorizzazione e di accoglienza; un’accettazione dell’“altro”, attraverso atteggiamenti che non devono variare né in funzione dello stato emotivo e comportamentale del malato, né dall’atteggiamento di quest’ultimo nei confronti chi si prende cura di lui, ma deve essere un’accettazione incondizionata. Il paziente deve avvertire che non verrà abbandonato, nonostante il suo comportamento e le difficoltà della relazione. Una “considerazione positiva incondizionata” che punta ad una maggiore fiducia nell’altro, in quanto più l’individuo si sente capito e accettato, più tende a lasciar cadere le false facciate con cui ha affrontato la vita, e più si muove in una direzione positiva e di miglioramento (Rogers,1970). Il paziente deve poter sperimentare la libertà di provare e sentire che c è completa apertura da parte del suo medico riguardo alla sua esperienza, significa ascoltarlo e aiutarlo senza esprimere giudizi (Rogers,1980). Solo così il malato sarà in grado di esplorare meglio e vivere positivamente quelle esperienze di malattia e di dolore,che gli provocano paure e atteggiamenti di chiusura, e lo sarà ancora di più, se il clinico riesce ad essere presente e pronto ad entrare nel mondo percettivo privato del altro. Ciò comporta l’acquisizione di alcune capacità di base da parte del clinico, come la sensibilità ai cambiamenti, alle paure, alla confusione o a qualsiasi altra cosa l'altro stia provando. Il clinico e gli altri operatori, sentono di dover offrire insieme al loro specifico lavoro anche la loro umanità, per il raggiungimento di un comportamento relazionale, che renda possibile sia un lavoro interpersonale, sia un lavoro di equipè efficiente. Si tratta, dunque, di valorizzare al massimo tutte le risorse e le varie figure professionali anche a livello educativo e spirituale.  Il tutto allo scopo di aiutare i malati a trovare un significato alla loro sofferenza, ovvero una direzione dignitosa al proprio dolore personale. Questo risulta essere un passo importante ,altrimenti alla nevrosi noogena,come Frankl chiama la sofferenza derivante dal vivere un’ esistenza di cui non si intravede alcun significato, si aggiunge un ulteriore sofferenza nel non riuscire a trovare un senso alla malattia e al dolore. Bisogna“rendere attiva la vita dei malati e fare in modo che essi passino dall’atteggiamento di patiens a quello di agens, per realizzare valori”. Bisogna far capire al malato che il compito a cui deve dedicarsi è innanzitutto un compito personale (V.Frankl). La parola “crisi” etimologicamente è associata al concetto di pericolo ma anche a quello di opportunità.  La sofferenza e la malattia, sostiene V. Frankl  sono una condizione privilegiata per cercare il senso dell’esistenza, al punto che l’homo patiens, il sofferente, è superiore all’homo faber, in quanto la malattia offre l’occasione per risvegliare la coscienza verso ciò che è essenziale, vero e autentico rendendo la vita stessa: “profondamente gravida di significato e degna di essere vissuta”. Occorre convincere questi pazienti, che buona parte del significato della loro vita consiste nel mostrare che sono all’altezza del loro destino, soprattutto quando è avverso; poiché “chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi come”.



LA RELAZIONE CLINICO-PAZIENTE: I RUOLI E LE MODALITA’ DI COMUNICAZIONE.

Ciò che esprime il paziente spesso è il bisogno di un luogo tranquillo dove parlare, dove poter condurre un colloquio con la massima serenità. Egli ha anche l’esigenza di avere informazioni su come affrontare le tappe terapeutiche. La relazione di cura è asimmetrica, dettata dal bisogno e dalla malattia del paziente.  Essa ha due facce: quella in terza persona che corrisponde a ciò che il clinico può diagnosticare, e poi il vissuto del malato, in quanto la malattia risulta essere un nuovo modo di esistere e di pensare alla propria condizione. Spesso la relazione di cura ha una prassi impersonale, fatta di interventi e farmaci che riducono il tempo della relazione allo stretto necessario. Non sempre il clinico è disposto  a prendersi cura del paziente dandogli disponibilità, attenzione e ascolto. 
 Affinchè un atto medico non si trasformi in un semplice dovere di tipo professionale, volto alla cura del sintomo,è necessario che esso avvenga all’interno di una relazione moralmente qualificata. Nell’arte della professione medica in generale, esistono dei postulati di natura morale che non possono essere trascurati: il postulato dell’uguaglianza tra gli individui, della dignità dell’uomo e del rispetto della persona, ossia della volontà altrui. Questi postulati stanno alla base di una possibile relazione interpersonale moralmente buona. Nell’ambito della terapia psicologica, la relazione è l’elemento più importante del setting, ed è il clinico che con la sua esperienza fa in modo che il contratto venga rispettato. La relazione terapeutica però può essere messa a rischio dalle tendenze manipolative del paziente, che possano catturare il terapeuta. Il modo migliore per superare questo problema, è quello di trasformare la relazione in incontro;si ha un incontro autentico, quando il dialogo è aperto al significato: in caso contrario, si trasforma in “dialogo senza logo”. Ogni medico si trova di fronte a pazienti posti sovente davanti ad un destino immutabile e inevitabile. Confortare e cercare di guidare il paziente non è compito solo dello psicologo o dello psichiatra, ma di qualsiasi medico, poiché oggi l’uomo spesso chiede al medico non solo ricette  e farmaci, ma anche un consiglio nei momenti dolorosi della vita.Ogni malattia sia essa psichica o fisica ha il suo significato, ma il vero significato della malattia non risiede là dove si pretende di cercarlo.;presiede nel come si soffre. Si tratta perciò di dare un vero significato alla malattia; è ciò che fa l’homo patiens, quando scopre la possibilità del valore che racchiude una sofferenza imposta dal destino. Il significato lo deve trovare il paziente, il medico non può dare un senso alla vita del paziente ,ma lo  aiuta a trovarlo, lo assiste, lo accompagna; può aiutarlo a prendere coscienza, soprattutto a convincersi che la vita non cessa di avere un significato neppure in mezzo alle sofferenze, offrendogli così la possibilità di realizzare il significato più elevato, il più alto valore possibile. “Se tratti una persona per come è, essa rimarrà come è,  se la tratti per come dovrebbe essere, essa diventerà come dovrebbe essere”. Inoltre, il medico deve consolare anche l’anima del malato, e questo compito non spetta solo allo psichiatra o allo psicologo, ma interessa qualsiasi medico che pratichi bene la sua professione. Per quanto riguarda invece il setting, nell’ambito della terapia psicologica, il primo compito del clinico è proprio quello di acquisire una serie di informazioni sul soggetto, sulle sue relazioni familiari, sul suo rapporto con gli altri, sulle sue angosce e aspettative. Importante è anche il linguaggio metaforico dei pazienti, in quanto permette di comprendere l’esperienza di malattia del soggetto. Gli individui usano molti termini e metafore per esprimere la loro condizione, ciò consente di capire che visione ha il paziente del proprio mondo e del proprio stato, e serve a facilitare il processo di conoscenza, per poter formulare così delle ipotesi iniziali. Nel setting vi è l’incontro tra due sconosciuti, entrambi influenzati da processi inconsci, il clinico diventa parte importante del processo terapeutico, e lo determina non solo dal punta di vista metodologico, ma anche con la propria individualità. Tale relazione clinico-paziente, come già affermato, è unica, asimmetrica, poiché è il paziente a rivolgersi al clinico per ricevere un aiuto, ma è sopratutto una relazione basata sulla fiducia. Il paziente deve convincersi che il clinico lo possa capire, quindi, quest’ultimo deve ispirare soprattutto fiducia e far sentire il soggetto accettato come persona, incoraggiarlo ad aprirsi, a dire qualsiasi cosa e a manifestare i suoi sentimenti.Inoltre vi è l’empatia che risulta essere uno degli elementi fondamentali della relazione terapeutica; essa è una particolare disposizione a mettersi nei panni dell’altro fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo. L’empatia ha origine nei primi rapporti con la figura materna che creano le basi affinchè si possa capire l’altro. Lo psicologo pur comprendendo i problemi e le difficoltà del paziente, deve però mantenere la giusta distanza per essere in grado di osservare, valutare e analizzare. Per evitare il contagio emotivo, invece, è necessario che il clinico sia consapevole della sua interazione con il paziente. L’atteggiamento empatico presuppone,dunque, un senso di sé molto sviluppato, per poter collocare al di fuori le emozioni percepite e attuare il necessario distacco per poter valutare razionalmente la situazione. L’intento è un’alleanza, ossia un unione di forze e sforzi; essa è infatti un rapporto emotivo tra due persone con ruoli diversi, che ha come scopo: “la conoscenza dell’altro”. Si basa sul desiderio da parte del paziente di cooperare, seguire le indicazioni del clinico e accettare il suo aiuto, e soprattutto sulla partecipazione attiva di entrambi gli attori.Ovviamente il clinico deve possedere delle qualità di base, indispensabili per il proprio lavoro;  deve essere in grado di prendere decisioni, di scegliere, valutare e interpretare i dati per formulare delle ipotesi. La relazione con il paziente è come un’arte, e richiede di essere continuamente migliorata, di saper comunicare e soprattutto ascoltare; il clinico, dunque, deve dimostrare una certa disponibilità affettiva, ispirare fiducia, e soprattutto possedere capacità diagnostiche e di osservazione.



IL PAZIENTE E LA SUA FAMIGLIA

Il paziente spesso di fronte alla malattia vive una specie di assalto, per diverse motivazioni. Deve incassare un impatto emotivo potente, preoccupandosi spesso per la reazione dei suoi familiari, affrontando così un gioco di ipocrisie per cercare di nascondere e minimizzare una situazione di difficoltà. Le reazioni da parte dei familiari di fronte alla malattia possono essere molteplici. Alcuni mettono in secondo piano se stessi aiutando attivamente il malato (iperconvolgimento), per altri il peso diventa intollerabile dimostrando magari ostilità e distacco, ma ciò non ha a che vedere con il fatto di non amare il familiare. Famiglie che spesso con l’aumentare della gravità della situazione sentono una diminuzione della capacità “di essere per l’altro” ,di relazionarsi con il malato. Ciò avviene sia nel caso di una malattia fisica che pischica. Queste situazioni diventono il punto di partenza di vari disagi e difficoltà; Proprio per questo molte famiglie chiedono in modo esplicito un aiuto e un sostegno, un progetto di pianificazione che possa aiutarli a fronteggiare le difficoltà e le diverse manifestazioni emotive del malato. La malattia dunque ha un significativo impatto sul funzionamento della famiglia, poiché provoca un impegno per il lavoro di cura, e un cambiamento nelle relazioni familiari. Un aspetto importante infatti è il cambiamento di ruoli. Modificare i ruoli in un momento doloroso come quello di una malattia, può creare disagio e difficoltà di adattamento. Adottare un ruolo diverso dal proprio significa prendere coscienza del fatto che il proprio familiare non è più quello di una volta, ciò significa fare i conti con l’inadeguatezza dell’altro. Questa situazione richiede necessariamente una maturità interiore e un equilibrio spesso difficile da raggiungere. Alcuni conflitti possono nascere proprio dall’eccessivo stress a cui le famiglie sono sottoposte durante questi momenti. Dunque importante è che la famiglia sia accompagnata nel processo di accettazione della diagnosi, nella ricerca delle informazioni riguardo la malattia, e nella disponibilità per eventuali necessità future. Solo se i familiari riescono ad adattare il proprio ruolo alle mutate caratteristiche del malato, riescono a mantenere un equilibrio interno e una relazione discretamente buona con il malato. La sofferenza della famiglia non deve essere sottovalutata, poiché molti insuccessi di cure per il malato possono dipendere dalla mancata vicinanza dei propri cari. Ci vogliono spazi per comunicare, in modo che i familiari possano esprimere i propri sentimenti, paure ed emozioni, ed essere pronti ad affrontare i momenti di crisi. Per quanto riguarda la terapia psicologica, spesso sono proprio le famiglie che preoccupati per la salute di un familiare lo costringono a prendere una decisione per risolvere un disagio. Compito del clinico o dello psicologo è analizzare la domanda, capire i motivi che hanno spinto il paziente a recarsi ad un colloquio. Spesso un individuo decide di rivolgersi ad uno specialista per tranquillizzare la famiglia, per evitare che i rapporti possano rovinarsi, o a volte può capitare che il paziente è molto ostile nei confronti dei suoi cari. Importante è dunque analizzare le richieste latenti. Spesso infatti dietro una richiesta di aiuto per un familiare, si può nascondere un disagio insito nell’intero nucleo familiare. Per cui ad aver bisogno di aiuto non è più solo il paziente, ma anche i suoi cari.