«Essere un uomo significa…avere la
capacità di sopportare
un dolore quando questo capita in sorte.
»
Viktor E. Frankl
ETICA PROFESSIONALE
Lo
psicologo, o un qualsiasi medico in generale, vanno incontro quotidianamente ad
un carico di speranze e di angosce, derivanti dalla disperazione dei malati e
delle loro famiglie, ai quali cercano di avvicinarsi con solidarietà umana e
sensibilità. Importante è la competenza e l’atteggiamento non solo del clinico,
ma anche dei diversi operatori sanitari
che operano in un dato contesto. Nella cura del malato, bisogna dare massima
importanza alla spiritualità, intesa nel senso di attenzione a quelle che sono
le attese e le domande più profonde del paziente. Vivere il dolore degli altri,
del paziente significa prendere coscienza della sua struttura fisica e
psicologica. Spesso nel distinguere la malattia dalla sofferenza, si corre il
rischio di concentrarsi solo ed esclusivamente sul disturbo, sia esso fisico o
psichico, trascurando il dolore intimo del paziente. Proprio in questo consiste
la differenza tra curare la malattia e curare il malato.
L’angoscia del malato
diventa “comportamento comunicativo”, ed è necessario soprattutto nel lavoro
dello psicologo, sapere “in che modo” e “a chi è diretta” tale comunicazione di
sofferenza da parte del paziente, al fine di mettere in campo la specifica
tipologia di intervento. Il malato, spesso, si chiude in se stesso, isolandosi
in un profondo silenzio, in una solitudine dal risvolto non solo psicologico,
ma anche relazionale. Egli si deve
sentirsi accompagnato da persone che si prendono cura delle sue emozioni, del
suo spirito e al tempo stesso del suo corpo, affinchè possa affrontare
serenamente, secondo i suoi modi e desideri, la sua esperienza di malattia.
L’uomo non ha questa capacità di soffrire, nessuno gliel'ha posta nella culla,
la capacità di soffrire invece l’uomo: se la deve soffrire! (V.Frankl,). Nel suo phatos, il malato
ha bisogno di essere ascoltato, ha bisogno di atteggiamenti di valorizzazione e
di accoglienza; un’accettazione dell’“altro”,
attraverso atteggiamenti che non devono variare né in funzione dello stato
emotivo e comportamentale del malato, né dall’atteggiamento di quest’ultimo nei
confronti chi si prende cura di lui, ma deve essere un’accettazione
incondizionata. Il paziente deve avvertire che non verrà abbandonato,
nonostante il suo comportamento e le difficoltà della relazione. Una “considerazione positiva incondizionata”
che punta ad una maggiore fiducia nell’altro, in quanto più l’individuo si
sente capito e accettato, più tende a lasciar cadere le false facciate con cui
ha affrontato la vita, e più si muove in una direzione positiva e di
miglioramento (Rogers,1970). Il
paziente deve poter sperimentare la libertà di provare e sentire che c è
completa apertura da parte del suo medico riguardo alla sua esperienza,
significa ascoltarlo e aiutarlo senza esprimere giudizi (Rogers,1980). Solo così il malato sarà in grado di esplorare
meglio e vivere positivamente quelle esperienze di malattia e di dolore,che gli
provocano paure e atteggiamenti di chiusura, e lo sarà ancora di più, se il
clinico riesce ad essere presente e pronto ad entrare nel mondo percettivo
privato del altro. Ciò comporta l’acquisizione di alcune capacità di base da
parte del clinico, come la sensibilità ai cambiamenti, alle paure, alla
confusione o a qualsiasi altra cosa l'altro stia provando. Il clinico e gli
altri operatori, sentono di dover offrire insieme al loro specifico lavoro
anche la loro umanità, per il raggiungimento di un comportamento relazionale,
che renda possibile sia un lavoro interpersonale, sia un lavoro di equipè
efficiente. Si tratta, dunque, di valorizzare al massimo tutte le risorse e le
varie figure professionali anche a livello educativo e spirituale. Il tutto allo scopo di aiutare i malati a
trovare un significato alla loro sofferenza, ovvero una direzione dignitosa al
proprio dolore personale. Questo risulta essere un passo importante ,altrimenti
alla nevrosi noogena,come Frankl chiama la sofferenza derivante dal vivere un’
esistenza di cui non si intravede alcun significato, si aggiunge un ulteriore
sofferenza nel non riuscire a trovare un senso alla malattia e al dolore.
Bisogna“rendere attiva la vita dei malati
e fare in modo che essi passino dall’atteggiamento di patiens a quello di
agens, per realizzare valori”. Bisogna far capire al malato che il compito
a cui deve dedicarsi è innanzitutto un compito personale (V.Frankl). La parola “crisi” etimologicamente è associata al
concetto di pericolo ma anche a quello di opportunità. La sofferenza e la malattia, sostiene V.
Frankl sono una condizione privilegiata
per cercare il senso dell’esistenza, al punto che l’homo patiens, il
sofferente, è superiore all’homo faber, in quanto la malattia offre
l’occasione per risvegliare la coscienza verso ciò che è essenziale, vero e
autentico rendendo la vita stessa: “profondamente gravida di significato e
degna di essere vissuta”. Occorre convincere questi pazienti, che buona
parte del significato della loro vita consiste nel mostrare che sono
all’altezza del loro destino, soprattutto quando è avverso; poiché “chi ha un perché per vivere, sopporta
qualsiasi come”.
LA RELAZIONE CLINICO-PAZIENTE: I RUOLI E LE MODALITA’ DI COMUNICAZIONE.
Ciò
che esprime il paziente spesso è il bisogno di un luogo tranquillo dove
parlare, dove poter condurre un colloquio con la massima serenità. Egli ha
anche l’esigenza di avere informazioni su come affrontare le tappe
terapeutiche. La relazione di cura è asimmetrica, dettata dal bisogno e dalla
malattia del paziente. Essa ha due
facce: quella in terza persona che corrisponde a ciò che il clinico può
diagnosticare, e poi il vissuto del malato, in quanto la malattia risulta
essere un nuovo modo di esistere e di pensare alla propria condizione. Spesso
la relazione di cura ha una prassi impersonale, fatta di interventi e farmaci
che riducono il tempo della relazione allo stretto necessario. Non sempre il
clinico è disposto a prendersi cura del
paziente dandogli disponibilità, attenzione e ascolto.
Affinchè un atto medico
non si trasformi in un semplice dovere di tipo professionale, volto alla cura
del sintomo,è necessario che esso avvenga all’interno di una relazione
moralmente qualificata. Nell’arte della professione medica in generale,
esistono dei postulati di natura morale che non possono essere trascurati: il
postulato dell’uguaglianza tra gli individui, della dignità dell’uomo e del
rispetto della persona, ossia della volontà altrui. Questi postulati stanno
alla base di una possibile relazione interpersonale moralmente buona.
Nell’ambito della terapia psicologica, la relazione è l’elemento più importante
del setting, ed è il clinico che con la sua esperienza fa in modo che il
contratto venga rispettato. La relazione terapeutica però può essere messa a
rischio dalle tendenze manipolative del paziente, che possano catturare il
terapeuta. Il modo migliore per superare questo problema, è quello di
trasformare la relazione in incontro;si ha un incontro autentico, quando il
dialogo è aperto al significato: in caso contrario, si trasforma in “dialogo
senza logo”. Ogni medico si trova di fronte a pazienti posti sovente davanti ad
un destino immutabile e inevitabile. Confortare e cercare di guidare il
paziente non è compito solo dello psicologo o dello psichiatra, ma di qualsiasi
medico, poiché oggi l’uomo spesso chiede al medico non solo ricette e farmaci, ma anche un consiglio nei momenti
dolorosi della vita.Ogni malattia sia essa psichica o fisica ha il suo significato,
ma il vero significato della malattia non risiede là dove si pretende di
cercarlo.;presiede nel come si soffre. Si tratta perciò di dare un vero
significato alla malattia; è ciò che fa l’homo patiens, quando scopre la
possibilità del valore che racchiude una sofferenza imposta dal destino. Il
significato lo deve trovare il paziente, il medico non può dare un senso alla
vita del paziente ,ma lo aiuta a
trovarlo, lo assiste, lo accompagna; può aiutarlo a prendere coscienza,
soprattutto a convincersi che la vita non cessa di avere un significato neppure
in mezzo alle sofferenze, offrendogli così la possibilità di realizzare il
significato più elevato, il più alto valore possibile. “Se tratti una persona per come è, essa rimarrà come è, se la tratti per come dovrebbe essere, essa
diventerà come dovrebbe essere”.
Inoltre, il medico deve consolare anche l’anima del malato, e questo
compito non spetta solo allo psichiatra o allo psicologo, ma interessa
qualsiasi medico che pratichi bene la sua professione. Per
quanto riguarda invece il setting, nell’ambito della terapia psicologica, il
primo compito del clinico è proprio quello di acquisire una serie di
informazioni sul soggetto, sulle sue relazioni familiari, sul suo rapporto con
gli altri, sulle sue angosce e aspettative. Importante è anche il linguaggio
metaforico dei pazienti, in quanto permette di comprendere l’esperienza di
malattia del soggetto. Gli individui usano molti termini e metafore per
esprimere la loro condizione, ciò consente di capire che visione ha il paziente
del proprio mondo e del proprio stato, e serve a facilitare il processo di
conoscenza, per poter formulare così delle ipotesi iniziali. Nel setting vi è
l’incontro tra due sconosciuti, entrambi influenzati da processi inconsci, il
clinico diventa parte importante del processo terapeutico, e lo determina non
solo dal punta di vista metodologico, ma anche con la propria individualità.
Tale relazione clinico-paziente, come già affermato, è unica, asimmetrica,
poiché è il paziente a rivolgersi al clinico per ricevere un aiuto, ma è
sopratutto una relazione basata sulla fiducia. Il paziente deve convincersi che
il clinico lo possa capire, quindi, quest’ultimo deve ispirare soprattutto
fiducia e far sentire il soggetto accettato come persona, incoraggiarlo ad
aprirsi, a dire qualsiasi cosa e a manifestare i suoi sentimenti.Inoltre vi è
l’empatia che risulta essere uno degli elementi fondamentali della relazione
terapeutica; essa è una particolare disposizione a mettersi nei panni
dell’altro fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo. L’empatia ha
origine nei primi rapporti con la figura materna che creano le basi affinchè si
possa capire l’altro. Lo psicologo pur comprendendo i problemi e le difficoltà
del paziente, deve però mantenere la giusta distanza per essere in grado di
osservare, valutare e analizzare. Per evitare il contagio emotivo, invece, è
necessario che il clinico sia consapevole della sua interazione con il
paziente. L’atteggiamento empatico presuppone,dunque, un senso di sé molto
sviluppato, per poter collocare al di fuori le emozioni percepite e attuare il
necessario distacco per poter valutare razionalmente la situazione. L’intento è
un’alleanza, ossia un unione di forze e sforzi; essa è infatti un rapporto
emotivo tra due persone con ruoli diversi, che ha come scopo: “la conoscenza dell’altro”. Si basa sul
desiderio da parte del paziente di cooperare, seguire le indicazioni del
clinico e accettare il suo aiuto, e soprattutto sulla partecipazione attiva di
entrambi gli attori.Ovviamente il clinico deve possedere delle qualità di base,
indispensabili per il proprio lavoro; deve essere in grado di prendere decisioni, di
scegliere, valutare e interpretare i dati per formulare delle ipotesi. La
relazione con il paziente è come un’arte, e richiede di essere continuamente
migliorata, di saper comunicare e soprattutto ascoltare; il clinico, dunque,
deve dimostrare una certa disponibilità affettiva, ispirare fiducia, e
soprattutto possedere capacità diagnostiche e di osservazione.
IL PAZIENTE E LA SUA FAMIGLIA
Il
paziente spesso di fronte alla malattia vive una specie di assalto, per diverse
motivazioni. Deve incassare un impatto emotivo potente, preoccupandosi spesso
per la reazione dei suoi familiari, affrontando così un gioco di ipocrisie per
cercare di nascondere e minimizzare una situazione di difficoltà. Le reazioni
da parte dei familiari di fronte alla malattia possono essere molteplici.
Alcuni mettono in secondo piano se stessi aiutando attivamente il malato
(iperconvolgimento), per altri il peso diventa intollerabile dimostrando magari
ostilità e distacco, ma ciò non ha a che vedere con il fatto di non amare il
familiare. Famiglie che spesso con l’aumentare della gravità della situazione
sentono una diminuzione della capacità “di essere per l’altro” ,di relazionarsi
con il malato. Ciò avviene sia nel caso di una malattia fisica che pischica. Queste
situazioni diventono il punto di partenza di vari disagi e difficoltà; Proprio
per questo molte famiglie chiedono in modo esplicito un aiuto e un sostegno, un
progetto di pianificazione che possa aiutarli a fronteggiare le difficoltà e le
diverse manifestazioni emotive del malato. La malattia dunque ha un
significativo impatto sul funzionamento della famiglia, poiché provoca un
impegno per il lavoro di cura, e un cambiamento nelle relazioni familiari. Un
aspetto importante infatti è il cambiamento di ruoli. Modificare i ruoli in un
momento doloroso come quello di una malattia, può creare disagio e difficoltà
di adattamento. Adottare un ruolo diverso dal proprio significa prendere
coscienza del fatto che il proprio familiare non è più quello di una volta, ciò
significa fare i conti con l’inadeguatezza dell’altro. Questa situazione
richiede necessariamente una maturità interiore e un equilibrio spesso
difficile da raggiungere. Alcuni
conflitti possono nascere proprio dall’eccessivo stress a cui le famiglie sono
sottoposte durante questi momenti. Dunque importante è che la famiglia sia
accompagnata nel processo di accettazione della diagnosi, nella ricerca delle
informazioni riguardo la malattia, e nella disponibilità per eventuali
necessità future. Solo se i familiari riescono ad adattare il proprio ruolo
alle mutate caratteristiche del malato, riescono a mantenere un equilibrio
interno e una relazione discretamente buona con il malato. La sofferenza della
famiglia non deve essere sottovalutata, poiché molti insuccessi di cure per il
malato possono dipendere dalla mancata vicinanza dei propri cari. Ci vogliono
spazi per comunicare, in modo che i familiari possano esprimere i propri
sentimenti, paure ed emozioni, ed essere pronti ad affrontare i momenti di
crisi. Per quanto riguarda la terapia psicologica, spesso sono proprio le
famiglie che preoccupati per la salute di un familiare lo costringono a
prendere una decisione per risolvere un disagio. Compito del clinico o dello
psicologo è analizzare la domanda, capire i motivi che hanno spinto il paziente
a recarsi ad un colloquio. Spesso un individuo decide di rivolgersi ad uno
specialista per tranquillizzare la famiglia, per evitare che i rapporti possano
rovinarsi, o a volte può capitare che il paziente è molto ostile nei confronti
dei suoi cari. Importante è dunque analizzare le richieste latenti. Spesso infatti dietro una richiesta di aiuto per un familiare,
si può nascondere un disagio insito nell’intero nucleo familiare. Per cui ad
aver bisogno di aiuto non è più solo il paziente, ma anche i suoi cari.
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