giovedì 24 gennaio 2013

Caratteristiche del rapporto medico- paziente.

Oggi vi propongo un estratto da una tesi di una collega, la dott.ssa Teresa Macrì, che sta prendendo la specialistica in psicologia clinica e della salute, è davvero molto interessante soprattutto perchè guarda il tutto anche dal punto di vista del nostro codice deontologico.



«Essere un uomo significa…avere la capacità di sopportare
 un dolore quando questo capita in sorte. » 
Viktor E. Frankl

ETICA PROFESSIONALE

Lo psicologo, o un qualsiasi medico in generale, vanno incontro quotidianamente ad un carico di speranze e di angosce, derivanti dalla disperazione dei malati e delle loro famiglie, ai quali cercano di avvicinarsi con solidarietà umana e sensibilità. Importante è la competenza e l’atteggiamento non solo del clinico, ma anche dei diversi operatori  sanitari che operano in un dato contesto. Nella cura del malato, bisogna dare massima importanza alla spiritualità, intesa nel senso di attenzione a quelle che sono le attese e le domande più profonde del paziente. Vivere il dolore degli altri, del paziente significa prendere coscienza della sua struttura fisica e psicologica. Spesso nel distinguere la malattia dalla sofferenza, si corre il rischio di concentrarsi solo ed esclusivamente sul disturbo, sia esso fisico o psichico, trascurando il dolore intimo del paziente. Proprio in questo consiste la differenza tra curare la malattia e curare il malato. 
 L’angoscia del malato diventa “comportamento comunicativo”, ed è necessario soprattutto nel lavoro dello psicologo, sapere “in che modo” e “a chi è diretta” tale comunicazione di sofferenza da parte del paziente, al fine di mettere in campo la specifica tipologia di intervento. Il malato, spesso, si chiude in se stesso, isolandosi in un profondo silenzio, in una solitudine dal risvolto non solo psicologico, ma  anche relazionale. Egli si deve sentirsi accompagnato da persone che si prendono cura delle sue emozioni, del suo spirito e al tempo stesso del suo corpo, affinchè possa affrontare serenamente, secondo i suoi modi e desideri, la sua esperienza di malattia. L’uomo non ha questa capacità di soffrire, nessuno gliel'ha posta nella culla, la capacità di soffrire invece l’uomo: se la deve soffrire! (V.Frankl,). Nel suo phatos, il malato ha bisogno di essere ascoltato, ha bisogno di atteggiamenti di valorizzazione e di accoglienza; un’accettazione dell’“altro”, attraverso atteggiamenti che non devono variare né in funzione dello stato emotivo e comportamentale del malato, né dall’atteggiamento di quest’ultimo nei confronti chi si prende cura di lui, ma deve essere un’accettazione incondizionata. Il paziente deve avvertire che non verrà abbandonato, nonostante il suo comportamento e le difficoltà della relazione. Una “considerazione positiva incondizionata” che punta ad una maggiore fiducia nell’altro, in quanto più l’individuo si sente capito e accettato, più tende a lasciar cadere le false facciate con cui ha affrontato la vita, e più si muove in una direzione positiva e di miglioramento (Rogers,1970). Il paziente deve poter sperimentare la libertà di provare e sentire che c è completa apertura da parte del suo medico riguardo alla sua esperienza, significa ascoltarlo e aiutarlo senza esprimere giudizi (Rogers,1980). Solo così il malato sarà in grado di esplorare meglio e vivere positivamente quelle esperienze di malattia e di dolore,che gli provocano paure e atteggiamenti di chiusura, e lo sarà ancora di più, se il clinico riesce ad essere presente e pronto ad entrare nel mondo percettivo privato del altro. Ciò comporta l’acquisizione di alcune capacità di base da parte del clinico, come la sensibilità ai cambiamenti, alle paure, alla confusione o a qualsiasi altra cosa l'altro stia provando. Il clinico e gli altri operatori, sentono di dover offrire insieme al loro specifico lavoro anche la loro umanità, per il raggiungimento di un comportamento relazionale, che renda possibile sia un lavoro interpersonale, sia un lavoro di equipè efficiente. Si tratta, dunque, di valorizzare al massimo tutte le risorse e le varie figure professionali anche a livello educativo e spirituale.  Il tutto allo scopo di aiutare i malati a trovare un significato alla loro sofferenza, ovvero una direzione dignitosa al proprio dolore personale. Questo risulta essere un passo importante ,altrimenti alla nevrosi noogena,come Frankl chiama la sofferenza derivante dal vivere un’ esistenza di cui non si intravede alcun significato, si aggiunge un ulteriore sofferenza nel non riuscire a trovare un senso alla malattia e al dolore. Bisogna“rendere attiva la vita dei malati e fare in modo che essi passino dall’atteggiamento di patiens a quello di agens, per realizzare valori”. Bisogna far capire al malato che il compito a cui deve dedicarsi è innanzitutto un compito personale (V.Frankl). La parola “crisi” etimologicamente è associata al concetto di pericolo ma anche a quello di opportunità.  La sofferenza e la malattia, sostiene V. Frankl  sono una condizione privilegiata per cercare il senso dell’esistenza, al punto che l’homo patiens, il sofferente, è superiore all’homo faber, in quanto la malattia offre l’occasione per risvegliare la coscienza verso ciò che è essenziale, vero e autentico rendendo la vita stessa: “profondamente gravida di significato e degna di essere vissuta”. Occorre convincere questi pazienti, che buona parte del significato della loro vita consiste nel mostrare che sono all’altezza del loro destino, soprattutto quando è avverso; poiché “chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi come”.



LA RELAZIONE CLINICO-PAZIENTE: I RUOLI E LE MODALITA’ DI COMUNICAZIONE.

Ciò che esprime il paziente spesso è il bisogno di un luogo tranquillo dove parlare, dove poter condurre un colloquio con la massima serenità. Egli ha anche l’esigenza di avere informazioni su come affrontare le tappe terapeutiche. La relazione di cura è asimmetrica, dettata dal bisogno e dalla malattia del paziente.  Essa ha due facce: quella in terza persona che corrisponde a ciò che il clinico può diagnosticare, e poi il vissuto del malato, in quanto la malattia risulta essere un nuovo modo di esistere e di pensare alla propria condizione. Spesso la relazione di cura ha una prassi impersonale, fatta di interventi e farmaci che riducono il tempo della relazione allo stretto necessario. Non sempre il clinico è disposto  a prendersi cura del paziente dandogli disponibilità, attenzione e ascolto. 
 Affinchè un atto medico non si trasformi in un semplice dovere di tipo professionale, volto alla cura del sintomo,è necessario che esso avvenga all’interno di una relazione moralmente qualificata. Nell’arte della professione medica in generale, esistono dei postulati di natura morale che non possono essere trascurati: il postulato dell’uguaglianza tra gli individui, della dignità dell’uomo e del rispetto della persona, ossia della volontà altrui. Questi postulati stanno alla base di una possibile relazione interpersonale moralmente buona. Nell’ambito della terapia psicologica, la relazione è l’elemento più importante del setting, ed è il clinico che con la sua esperienza fa in modo che il contratto venga rispettato. La relazione terapeutica però può essere messa a rischio dalle tendenze manipolative del paziente, che possano catturare il terapeuta. Il modo migliore per superare questo problema, è quello di trasformare la relazione in incontro;si ha un incontro autentico, quando il dialogo è aperto al significato: in caso contrario, si trasforma in “dialogo senza logo”. Ogni medico si trova di fronte a pazienti posti sovente davanti ad un destino immutabile e inevitabile. Confortare e cercare di guidare il paziente non è compito solo dello psicologo o dello psichiatra, ma di qualsiasi medico, poiché oggi l’uomo spesso chiede al medico non solo ricette  e farmaci, ma anche un consiglio nei momenti dolorosi della vita.Ogni malattia sia essa psichica o fisica ha il suo significato, ma il vero significato della malattia non risiede là dove si pretende di cercarlo.;presiede nel come si soffre. Si tratta perciò di dare un vero significato alla malattia; è ciò che fa l’homo patiens, quando scopre la possibilità del valore che racchiude una sofferenza imposta dal destino. Il significato lo deve trovare il paziente, il medico non può dare un senso alla vita del paziente ,ma lo  aiuta a trovarlo, lo assiste, lo accompagna; può aiutarlo a prendere coscienza, soprattutto a convincersi che la vita non cessa di avere un significato neppure in mezzo alle sofferenze, offrendogli così la possibilità di realizzare il significato più elevato, il più alto valore possibile. “Se tratti una persona per come è, essa rimarrà come è,  se la tratti per come dovrebbe essere, essa diventerà come dovrebbe essere”. Inoltre, il medico deve consolare anche l’anima del malato, e questo compito non spetta solo allo psichiatra o allo psicologo, ma interessa qualsiasi medico che pratichi bene la sua professione. Per quanto riguarda invece il setting, nell’ambito della terapia psicologica, il primo compito del clinico è proprio quello di acquisire una serie di informazioni sul soggetto, sulle sue relazioni familiari, sul suo rapporto con gli altri, sulle sue angosce e aspettative. Importante è anche il linguaggio metaforico dei pazienti, in quanto permette di comprendere l’esperienza di malattia del soggetto. Gli individui usano molti termini e metafore per esprimere la loro condizione, ciò consente di capire che visione ha il paziente del proprio mondo e del proprio stato, e serve a facilitare il processo di conoscenza, per poter formulare così delle ipotesi iniziali. Nel setting vi è l’incontro tra due sconosciuti, entrambi influenzati da processi inconsci, il clinico diventa parte importante del processo terapeutico, e lo determina non solo dal punta di vista metodologico, ma anche con la propria individualità. Tale relazione clinico-paziente, come già affermato, è unica, asimmetrica, poiché è il paziente a rivolgersi al clinico per ricevere un aiuto, ma è sopratutto una relazione basata sulla fiducia. Il paziente deve convincersi che il clinico lo possa capire, quindi, quest’ultimo deve ispirare soprattutto fiducia e far sentire il soggetto accettato come persona, incoraggiarlo ad aprirsi, a dire qualsiasi cosa e a manifestare i suoi sentimenti.Inoltre vi è l’empatia che risulta essere uno degli elementi fondamentali della relazione terapeutica; essa è una particolare disposizione a mettersi nei panni dell’altro fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo. L’empatia ha origine nei primi rapporti con la figura materna che creano le basi affinchè si possa capire l’altro. Lo psicologo pur comprendendo i problemi e le difficoltà del paziente, deve però mantenere la giusta distanza per essere in grado di osservare, valutare e analizzare. Per evitare il contagio emotivo, invece, è necessario che il clinico sia consapevole della sua interazione con il paziente. L’atteggiamento empatico presuppone,dunque, un senso di sé molto sviluppato, per poter collocare al di fuori le emozioni percepite e attuare il necessario distacco per poter valutare razionalmente la situazione. L’intento è un’alleanza, ossia un unione di forze e sforzi; essa è infatti un rapporto emotivo tra due persone con ruoli diversi, che ha come scopo: “la conoscenza dell’altro”. Si basa sul desiderio da parte del paziente di cooperare, seguire le indicazioni del clinico e accettare il suo aiuto, e soprattutto sulla partecipazione attiva di entrambi gli attori.Ovviamente il clinico deve possedere delle qualità di base, indispensabili per il proprio lavoro;  deve essere in grado di prendere decisioni, di scegliere, valutare e interpretare i dati per formulare delle ipotesi. La relazione con il paziente è come un’arte, e richiede di essere continuamente migliorata, di saper comunicare e soprattutto ascoltare; il clinico, dunque, deve dimostrare una certa disponibilità affettiva, ispirare fiducia, e soprattutto possedere capacità diagnostiche e di osservazione.



IL PAZIENTE E LA SUA FAMIGLIA

Il paziente spesso di fronte alla malattia vive una specie di assalto, per diverse motivazioni. Deve incassare un impatto emotivo potente, preoccupandosi spesso per la reazione dei suoi familiari, affrontando così un gioco di ipocrisie per cercare di nascondere e minimizzare una situazione di difficoltà. Le reazioni da parte dei familiari di fronte alla malattia possono essere molteplici. Alcuni mettono in secondo piano se stessi aiutando attivamente il malato (iperconvolgimento), per altri il peso diventa intollerabile dimostrando magari ostilità e distacco, ma ciò non ha a che vedere con il fatto di non amare il familiare. Famiglie che spesso con l’aumentare della gravità della situazione sentono una diminuzione della capacità “di essere per l’altro” ,di relazionarsi con il malato. Ciò avviene sia nel caso di una malattia fisica che pischica. Queste situazioni diventono il punto di partenza di vari disagi e difficoltà; Proprio per questo molte famiglie chiedono in modo esplicito un aiuto e un sostegno, un progetto di pianificazione che possa aiutarli a fronteggiare le difficoltà e le diverse manifestazioni emotive del malato. La malattia dunque ha un significativo impatto sul funzionamento della famiglia, poiché provoca un impegno per il lavoro di cura, e un cambiamento nelle relazioni familiari. Un aspetto importante infatti è il cambiamento di ruoli. Modificare i ruoli in un momento doloroso come quello di una malattia, può creare disagio e difficoltà di adattamento. Adottare un ruolo diverso dal proprio significa prendere coscienza del fatto che il proprio familiare non è più quello di una volta, ciò significa fare i conti con l’inadeguatezza dell’altro. Questa situazione richiede necessariamente una maturità interiore e un equilibrio spesso difficile da raggiungere. Alcuni conflitti possono nascere proprio dall’eccessivo stress a cui le famiglie sono sottoposte durante questi momenti. Dunque importante è che la famiglia sia accompagnata nel processo di accettazione della diagnosi, nella ricerca delle informazioni riguardo la malattia, e nella disponibilità per eventuali necessità future. Solo se i familiari riescono ad adattare il proprio ruolo alle mutate caratteristiche del malato, riescono a mantenere un equilibrio interno e una relazione discretamente buona con il malato. La sofferenza della famiglia non deve essere sottovalutata, poiché molti insuccessi di cure per il malato possono dipendere dalla mancata vicinanza dei propri cari. Ci vogliono spazi per comunicare, in modo che i familiari possano esprimere i propri sentimenti, paure ed emozioni, ed essere pronti ad affrontare i momenti di crisi. Per quanto riguarda la terapia psicologica, spesso sono proprio le famiglie che preoccupati per la salute di un familiare lo costringono a prendere una decisione per risolvere un disagio. Compito del clinico o dello psicologo è analizzare la domanda, capire i motivi che hanno spinto il paziente a recarsi ad un colloquio. Spesso un individuo decide di rivolgersi ad uno specialista per tranquillizzare la famiglia, per evitare che i rapporti possano rovinarsi, o a volte può capitare che il paziente è molto ostile nei confronti dei suoi cari. Importante è dunque analizzare le richieste latenti. Spesso infatti dietro una richiesta di aiuto per un familiare, si può nascondere un disagio insito nell’intero nucleo familiare. Per cui ad aver bisogno di aiuto non è più solo il paziente, ma anche i suoi cari.


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